Pisa – Lucca, sola andata

Pisa. L’ora del topo. Arrivai a Pisa per la prima volta in una notte d’autunno di 45 anni fa. Mi ci condusse un treno improbabile: un localaccio in ritardo da Firenze, probabile destinazione Livorno, o magari Grosseto o forse anche La Spezia. Per me la Toscana, allora, era soprattutto Firenze e di lì ero convinto che si transitasse per andare da qualsiasi altra parte. All’atto della partenza da Roma l’idea di un collegamento diretto tra la capitale e il capoluogo con la Torre pendente non mi aveva neppure sfiorato: così, complice anche una coincidenza sbagliata, allungai il viaggio di oltre due ore, mettendo piede, rintronato dal sonno, in una città appena uscita da un abbondante acquazzone notturno che aveva costellato di pozzanghere la piazza della stazione e intasato più di un tombino.

Mi accolse, dunque, una città acquitrino, mentre le nubi si diradavano, riapparivano le stelle e la luna faceva discretamente capoccella. Era l’ora del lupo, o meglio del topo: unico essere vivente visibile, infatti, un ratto di chiavica medio-grande, incerto se attraversare o meno il viale che mi/gli si apriva davanti e alle prese, presumo, coi problemi della tana allagata. Emerso dalle fogne, si proponeva come esclusivo plenipotenziario del locale comitato per le accoglienze: appena al di là della strada ne intuivo la pelliccia umida e ruvida di peli spinosi, la lunga coda, un’aria vagamente seccata. La stessa mia mentre affrontavo il problema di attraversare quel piazzale impaludato senza inzupparmi scarpe e calzini evitando inoltre di incrociare troppo da presso l’abitatore della cloaca e di quella primissima alba. Una breve corsetta appesantita dalla valigia piena di libri e del tipo omnia mea mecum porto e guadagnai i portici senza garbo della galleria Gramsci. Dieci, quindici, venti passi ancora con le scarpe mézze (termine che nel 1972 non conoscevo e che avrei imparato a usare negli anni a venire) e… “Nessun eroismo” mi ribadii. Allora, modesto ma decoroso, un po’ malinconico, mi offrì ospitalità l’hotel La pace: per circa tre settimane – nomen/omen – la mia prima residenza nella mia nuova città.
Pisa l’avevo appena appena sfiorata e l’impressione non era stata granché. Ignoravo che quel posto così poco accogliente, per oltre sette anni sarebbe diventata casa mia, intensamente vissuta e altrettanto amata e detestata.

Lucca. Di là da venire. E Lucca? Arriverà solo qualche anno più tardi, alla fine dei Settanta o giù di lì e coinciderà con la fine della giovinezza, l’inizio dell’età adulta e il confronto, tutt’altro che indolore, con le prime responsabilità professionali e familiari. Con Lucca l’incontro fu, come dire, omeopatico, diluito nel tempo. Tante piccole occasioni, nessuna decisiva per l’innamoramento, ognuna capace di far crescere lo stupore, la curiosità, l’ammirazione. Durante gli anni pisani venivo a Lucca da visitatore, da turista, sorpreso ogni volta da tanta bellezza concentrata in un’area così ristretta: “antica città soffocata di secoli” la definiva proprio in quegli anni un suo cittadino illustre, il letterato Guglielmo Petroni, in uno dei suoi romanzi più intensi e drammatici, La morte del fiume. Di quella città che non mi aspettavo mi colpirono i colori; il verde degli spalti, il rosso mattone della cortina delle mura, le infinite sfumature del bianco dei marmi. E poi gli angoli della città che si manifestavano agli ospiti, ieri come oggi, attraverso emozionanti ‘presentazioni’ scenografiche, figlie di una psicologia della sorpresa apparentemente spontanea, invece voluta e programmata.
Sempre prudenti – e un po’ algidi – i suoi abitatori. Difficile per me che venivo da fuori – naufrago che non finiva mai di asciugarsi – relazionarmi ed entrare in sintonia con gli indigeni. Per legittimarti ai loro occhi – mi dissero – poteva non bastare una vita. Nel mio caso presi la via dell’orto di casa: passai da Capannori, dove mi adoperai per accumulare i titoli modesti d’insegnante di campagna: mi dedicai soprattutto a chi non riusciva, a chi restava indietro, agli umiliati gentili, ai demoralizzati creativi, agli ‘stupidi’ sensibili. Qualcuno l’ha apprezzato.

Luciano Luciani

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