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Giornalisti e carceri: cosa dice la deontologia

Il carcere non è necessariamente per sempre. E anche i giornalisti lo devono ricordare. E’ per questo che la quinta puntata del viaggio nella deontologia giornalistica, ad uso e consumo dei lettori che hanno, ex articolo 21 della Costituzione, il diritto di essere informati correttamente, si occupa della cosiddetta Carta di Milano ovvero, come recita il testo del “Protocollo deontologico per i giornalisti che trattano notizie concernenti carceri, detenuti o ex detenuti” approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti l’11 aprile del 2013.
Il concetto di base è, oltre al doveroso rispetto alla verità sostanziale dei fatti già contenuto nella legge istitutiva dell’Ordine, che il diritto di cronaca su fatti e responsabilità può trovare dei limiti se viene in conflitto con i diritti del soggetto di cui si racconta, con particolare attenzione alle finalità di reinserimento sociale sottese alla pena comminata e al diritto all’oblio, vero il diritto di ciascuno di noi ad essere tutelati dalla diffusione di dati su precedenti giudiziari.

Questi i dettami della Carta di Milano, secondo cui occorre “Tenere presente che il reinserimento sociale è un passaggio complesso che può avvenire a fine pena oppure gradualmente, come previsto dalle leggi che consentono l’accesso al lavoro esterno, i permessi ordinari, i permessi-premio, la semi-libertà, la liberazione anticipata e l’affidamento in prova ai servizi sociali; usare termini appropriati in tutti i casi in cui un detenuto usufruisce di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari evitando di sollevare un ingiustificato allarme sociale e di rendere più difficile un percorso di reinserimento sociale che avviene sotto stretta sorveglianza. Le misure alternative non sono equivalenti alla libertà, ma sono una modalità di esecuzione della pena; fare riferimento puntuale alle leggi che disciplinano il procedimento penale e l’esecuzione della pena e alla legge sull’ordinamento penitenziario (354 del 1975); fornire dati attendibili e aggiornati che permettano una corretta lettura del contesto carcerario; considerare che il cittadino privato della libertà è un interlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, ma può non conoscere le dinamiche mediatiche e non essere quindi in grado di valutare tutte le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media”. La Carta di Milano chiede inoltre di  “tutelare il condannato che sceglie di parlare con i giornalisti, non coinvolgendo inutilmente i suoi familiari, evitando di identificarlo solo con il reato commesso e valorizzando il percorso di reinserimento che sta compiendo; garantire al cittadino privato della libertà di cui si sono occupate le cronache la stessa completezza di informazione qualora sia prosciolto; tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio, usare termini appropriati nel definire il personale addetto alle carceri”.

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