Un giro di Mura coi letterati del Novecento

Non pochi i letterati novecenteschi che, di volta in volta, hanno scoperto e riproposto ai loro lettori tutte le sottili seduzioni e le malie riposte della città del santo vescovo Frediano. E come poteva ignorare Lucca e le sue Mura un immagnifico inventore di slogan come Gabriele D’Annunzio? A lui si deve l’espressione “arborato cerchio”, che, divenuta in breve celeberrima, è oggi di uso comune per indicare Lucca e il suo più celebre – e vissuto – monumento:
Tu vedi lunge gli oliveti grigi
che vaporano il viso ai poggi, o Serchio,
e la città dell’arborato cerchio,
ove dorme la donna del Guinigi.
(Elettra)

Più pensoso, Giuseppe Ungaretti – lucchese d’origine, ma di ‘Lucca fora’ – nella sua stratificatissima e tormentata raccolta L’Allegria:
In queste mura non ci si sta che di passaggio.
Qui la meta è partire.
Versi che nulla concedono a un descrittivismo di maniera e scavano, invece, nella percezione che delle Mura ebbero generazioni di contadini della Piana lucchese, condannati dalla miseria e dalla fame ad un destino di emigrazione ai quattro angoli del mondo. Scrittori, prosatori, poligrafi, giornalisti novecenteschi hanno riguardato spesso a Lucca e ne hanno celebrato la bellezza, l’armonia delle forme, le ricche memorie architettoniche come i necessari antidoti all’estetica del brutto e alla disattenzione per il passato proprie dell’ultimo secolo di storia. Così, il lucchese Arrigo Benedetti (Lucca 1910 – Roma 1976), all’interno di un’acuta sensibilità per il mondo fantastico delle tradizioni popolari della propria terra, esalta le Mura e l’area che esse circoscrivono come vocate alla operosità, alla laboriosità, a laiche virtù di imprenditività. Sedotto dalle Mura lucchesi ci appare anche il versiliese – ma lucchese d’adozione e negli ultimi anni della sua vita cittadino onorario della città – Mario Tobino (Viareggio 1910 – Agrigento 1991): con affetto casalingo le definisce “familiare tinello, orto di casa, giardino” e anche “guanciale”. Ne coglie il “color damasco che hanno preso i mattoni per i tantissimi tramonti e le tenere albe che su di loro si sono posate”, ne difende con passione e competenza la straordinaria integrità architettonica. Un unicum, certo, ma anche, nel bene e nel male, barriera e confine per la comunità umana che, nel tempo, le ha realizzate. Così, almeno, le ‘legge’ un altro letterato versiliese, Enrico Pea (Seravezza 1881 – Forte dei Marmi 1958): “Lucca è troppo piccola città, le stesse muraglie di tre chilometri di giro, di cui è centro, sono impedimento a spaziare. Quasiché quelle mura fossero simbolo a ricordare il lecito e l’illecito ai cittadini: il limite, ché ogni scappatagine qui si risà in un baleno, ché la notizia come la voce fa eco: rimbalza: traversa le città dai poggi di Porta Elisa a quelli di Porta Sant’Anna e da Porta Vapore al Giannotti. Perché, le sponde interne delle mura di Lucca sono verdi e fiorite come le pareti di quei catini paesani che usano le massaie lucchesi per lavare i piatti”. Insomma, le Mura fanno di Lucca un luogo gradevole a vedersi, magari anche a viverci, ma chiuso. Non le percepisce così, però, Gino Custer De Nobili, poeta vernacolo dall’ispirazione modesta ma sincera che, in sonetto della sua abbondantissima produzione nella parlata di ‘Lucca drento’, delle Mura coglie soprattutto l’aspetto accogliente, cordiale, domestico:
Me lo dice un po’ lei dove la vede
in un’altra città una passeggiata
uguale a questa, comoda, ombreggiata,
col su’ tericcio ch’ ‘un dà noia al piede,
tenuta sempre ‘n ghìngheri, innacquata?…
Lo sa ch’anco d’agosto uno ‘un s’avvede
di trovarsi nel sòffoco e si crede
d’esse tornato già alla rinfrescata?
Il gran comodo, poi, della cortina
è che stai nsul muricciolo a sedere
espòsto come ‘n mezzo a una vetrina.
E mentre siei guardato di sfuggita
prendi in giro la gente ch’è il piacere,
sì, credi a me, più bello della vita.
(La cortina bona delle Mura, in Lucca mia bella)
Per Guglielmo Petroni (Lucca 1911 – Roma 1993) la visione delle Mura al tramonto coincide con la gioia del ritorno al termine di un lungo e tormentato viaggio da Roma a Lucca attraverso un’Italia devastata dal fascismo e dalla guerra: un sentimento destinato ad essere ben presto contraddetto ma, comunque, pieno, rotondo, confortante nutrito dei colori – e degli odori, dei sapori – di casa. Una pagina tra le più belle di questo scrittore lucchese così austero e riservato appartiene a Il mondo è una prigione: “Rividi tutte le torri della mia città, esse tutte in piedi, la prima città tutta in piedi dopo tante rovine; le mie torri, immerse in uno strato di luce rosa, erano là come sempre, ancora solide nella loro eleganza: i vetri della città luccicavano al ripiegarsi del sole. Attorno alle Mura, tra le cento chiese, tra i marmi levigati e le pietre grigie dei palazzi patrizi, si era svolta un parte della grande tragedia; anche lì morti, odii, orrori, stranieri oppressori e stranieri liberatori, ma nulla pareva mutato”. Le Mura hanno un dono: riescono a vincere il tempo e le contingenze della storia per offrire, a chi sa interrogarle, un secolare messaggio di civiltà. Questa virtù è bene espressa nei versi di fine secolo di un poeta lucchese contemporaneo, Virginio Giovanni Bertini:
Ti fermi per assaporare
la storica immobile bellezza delle
torri,
dei campanili, delle chiese, delle
ville.
Ti siedi per sorseggiare il sole
che ti insegue nel percorso alberato
e assaporare la distanza dal
metallico transito.
Immersione nel mondo che vedi,
suggestione di poterlo guidare da lì,
oltre la striscia di confine che
separa la città dalla campagna.
Non sono una geometrica
presenza del passato
o una quieta fortezza rossa e verde,
le Mura, queste Mura, sono
una tenera carezza di amanti,
un azimut di tensioni ed emozioni
uno specchio potente della città
e delle persone,
un balcone sul panorama
dell’umanità.
(Fraternità)

Luciano Luciani

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