Aspro e difficile. Ripensando il teatro di Pea

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Poco fortunato il teatro di Enrico Pea nella critica. Esemplare, in questo senso, il giudizio che dava, ancora nel 1969, un critico letterario come Emilio Cecchi, certo immune dal sospetto di scarsa simpatia per l’autore versiliese del quale, invece, aveva sempre apprezzato la produzione narrativa. Citando delle dieci opere teatrali di Pea i soli testi Giuda, 1918, e Rosa di Sion, 1919, Cecchi ne parla come un “intermezzo di certe opere teatrali dalle quali la sua arte non è uscita senza qualche avventura meno felice”. 

Un giudizio alquanto ‘al ribasso’ sulle fatiche teatrali di Pea che sembra riassumere le perplessità, i dubbi, le polemiche, l’imbarazzo che sempre hanno accompagnato le rappresentazioni dell’autore seravezzino fin dal loro primo apparire. Finivano spiazzati, i critici, dagli elementi ora naturalistici, ora decadenti, presenti nel suo teatro, che finivano poi per fondersi in un tratto del tutto originale e personale. E anche un altro ‘mostro sacro’ del teatro italiano, Silvio D’Amico, oltre trent’anni prima del giudizio del Cecchi, non aveva nascosto la sua difficoltà a comprendere la complessità e le durezze intime del testo peiano: “Pea sembra un lirico e un frammentista molto più che un drammaturgo”. Salva, l’illustre critico, solo Prima pioggia d’ottobre, 1919, di cui, però, lamenta la mancanza di “un disegno netto”, ne evidenzia la fatica per “intenderne l’intima logica” e per “afferrare il senso di quelli che, tra l’impurità dei motivi secondari, dovrebbero essere i principali” e indica impietosamente che “la frammentarietà dell’opera rimane un po’ crudamente palese”, mentre risulta “non necessaria “la concatenazione degli eventi; solo casi di commozione qua e là; momenti di bella lucidità lirica”. Giacomo Antonini nel 1927 non può non far notare che “come nel romanzo italiano, così anche nel teatro Enrico Pea occupa, solo, un posto tutto speciale. Ogni sua opera infatti, contraddistinta dalla inconfondibile impronta della sua personalità, si fa notare nel complesso della nostra produzione drammatica sia per i problemi che agita, sia per il clima nel quale si svolge l’azione”. Nei suoi drammi si addensa, è sempre l’Antonini che parla, “un’atmosfera torbida e tragica che quasi preannunzia subito la catastrofe e nei quali sono trattate vicende di voluttà e sangue”. Il Pea si rivela – come d’altronde nei suoi romanzi – un violento istintivo; e i problemi che tratta sono più che altro problemi religiosi, dimostrando il generale interesse dell’autore per i conflitti che possono nascere dal contrasto fra la religione ebraica e la cristiana. Della produzione peiana al 1927 – la trilogia Giuda, Prima pioggia d’ottobre, Rosa di Sion e Parole di scimmie e di preti – Antonini sbalza soprattutto i due testi centrali scrivendo quasi profeticamente: “questo severo scrittore ha il suo posto nella nostra letteratura drammatica, perché – ecco il suo pregio massimo – ci ha saputo portare personaggi e trattare problemi assolutamente umani ed originali. Il Pea resterà probabilmente anche nel teatro un autore conosciuto da pochi, amato da pochissimi: ma ciò non toglie nulla al valore dei suoi drammi, nei quali egli si riafferma un autentico poeta che onora veramente con la sua arte la nostra letteratura”. Ma le considerazioni forse più attente alla complessità, alle difficoltà, alle – diciamolo pure – spigolosità, durezze del teatro di Pea sono quelle di Piero Gobetti, severissimo recensore teatrale sull’Ordine nuovo di Gramsci: “… nel teatro di Enrico Pea, infatti, molti sono i grovigli e i sentieri scoscesi, ma se vi ci perdete con fiducia e collaborate con l’autore al ritrovamento e alla conclusione non avrete giocato il vostro tempo: quando il poeta non vi possa dare la gioia di tutto il suo canto vi offre, da galantuomo, la sua esperienza che non mente”. Sì, perché in tutti i testi di Pea è sempre presente ed evidenziata in maniera nettissima una profonda preoccupazione di ordine etico che manca, per esempio, nei suoi contemporanei più grandi. Un’eticità naturale, la sua, quale si poteva ritrovare nelle rappresentazioni popolari che tanto amava. Il teatro, per Pea, è subordinato alla morale, e poco importa all’autore versiliese se creatività e autenticità debbano così pagare un prezzo, a volte alto, al ragionamento e alla riflessione, per cui, spesso, il dramma si trasforma in disquisizione, in dissertazione. Come non notare, poi, in tempi in cui circolavano ancora nel teatro italiano tanti veleni superomistici, la modernissima attenzione con cui Pea riguardava ai miseri, ai derelitti, ai dannati della storia? Così, nella trilogia Giuda, 1918, Prima pioggia d’ottobre e Rosa di Sion 1919, l’adesione ai temi della storia ebraica si trasforma nel racconto della tragedia della diaspora, della confusione tra genti diverse e, al tempo stesso, l’insaziato desiderio di legittimazione e di pace. La stessa figura maledetta di Giuda diviene per Pea l’occasione per un’operazione provocatoria: il tentativo di riscattare da un’esecrazione millenaria nientemeno che Giuda, il traditore per eccellenza, che diventa la figura tormentata e complessa di un coerente oppositore dei romani che opprimevano il popolo ebraico. Altro motivo dell’attualità di Pea, la sua lingua: vigorosa, agile, fresca, irrobustita da arcaismi e provincialismi, priva di compiacimenti letterari si rivela strumento adeguato alla espressività del suo teatro. È la lingua di un cantore popolare, di un autodidatta di genio, lingua che dal nostro vissuto, dal quotidiano prende vivacità naturalistica e contribuisce in maniera decisiva a rappresentare anche il buio, le pulsioni profonde ed elementari che si agitano nelle zone remote dell’animo umano.

Luciano Luciani

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