Da Candy a Lady Oscar, amarcord tra le eroine dei cartoni

I pomeriggi piovosi, d’autunno, per le bambine degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, avevano il colore degli anime giapponesi. Quelli pensati e scritti proprio per loro, i cosiddetti shōjo – termine che identifica il racconto del passaggio tra l’infanzia e l’età adolescente e adulta nei personaggi femminili. Eroine che si innamorano, che vivono situazioni complesse, che superano conflitti interiori. A volte sono streghette o maghette – e allora si parla, più propriamente, di majokko.
Di questo, tra spezzoni amarcord e sigle tutte da cantare, si è parlato questa mattina (31 ottobre) in cappella Guinigi con Maurizio Nataloni e Stefania Torsello dell’associazione Vite da Peter Pan, ospiti di Lucca Comics & Games.

“Le ragazze shōjo rappresentano un fenomeno culturale che, in Giappone, si afferma già alla fine dell’Ottocento – hanno spiegato – quando nascono i primi collegi femminili. Una fase storica in cui il governo del Sol Levante si rende conto dell’importanza di investire sulla formazione delle donne, per renderle ‘produttive’ per la crescita del paese in quel periodo della vita che va dalla fine dell’adolescenza fino al matrimonio. Un’emancipazione limitata nel tempo ma, comunque, di emancipazione si trattava”. Ed è allora che si iniziano a raccontare le shōjo: in principio, fate e principesse. Poi, a mano a mano che il genere si affina, anche attraverso lo sviluppo dei manga, ecco arrivare sulla scena un disegnatore che ancora oggi è considerato punto di riferimento e maestro: Osamu Tezuka. È con la sua principessa Zaffiro, nel 1967, che il genere shōjo svolta: un personaggio femminile al quale è stato donato un cuore maschile, che fa i capricci brandendo la spada e usando, al contempo, abiti principeschi. “Tezuka è stato un innovatore – hanno spiegato Nataloni e Torsello – anche grazie alla sua vivacità, alla sua mente aperta verso quello che accadeva fuori: amava il Café chantant francese, i musical di Broadway, le produzioni Disney e i film di Hollywood. Ma non solo: Tezuka è stato influenzato anche da una compagnia teatrale di sole donne, la Takarazuka Revue, nella quale i personaggi maschili erano interpretati da attrici. Uno sguardo, il suo, capace di andare oltre la paura di quello che il mondo occidentale, all’epoca, rappresentava”.
Il focus sullo shōjo è quindi entrato nel vivo con una carrellata ragionata di personaggi e storie, tutti ancora impressi nella memoria di un pubblico fatto, per lo più, da bambine cresciute. Senza bacchette magiche, né bon bon angelici. Come quelli donati alla piccola Lilly che, rimasta orfana, deve poter badare al proprio fratellino e così riceve in dono delle caramelline in grado di aumentarle e ridurle l’età di 10 anni. Un manga firmato, anche questo, dal genio di Tezuka. È così che la magia fa il suo ingresso nelle giornate delle bambine. Da Lo specchio magico, del 1971, con la piccola Stilly che attraverso uno specchietto riesce a trasformarsi in chi desidera essere, al 1982 – anno della svolta – con Rensie la strega, che per prima introduce sketch comici all’interno della narrazione. Da lì in poi, le streghette lasciano il testimone alle maghette. Periodo che, in Italia, coincide anche l’arrivo della televisione commerciale, delle reti Fininvest e della Five Records, l’etichetta con la quale Cristina D’Avena ha iniziato a incidere le sigle dei cartoni animati. Ed ecco Creamy nel 1983, Evelyn nel 1984, Emy nel 1985 e Sandy nel 1986. Disegni più fantasiosi, ragazzine che si accorgono che con la magia possono diventare adulte e fare esattamente quello che vogliono, in un corpo diverso dal loro.
Due, infine, gli shōjo che più di altri hanno condizionato l’immaginario collettivo: Candy Candy e Lady Oscar (Versailles no bara, per i puristi). Arrivato in tv nel 1975 il primo e nel 1979 il secondo, i due anime sono entrati nel linguaggio comune: “non fare la Candy Candy della situazione”, si dice, infatti, quando si invita qualcuno a non essere troppo buono. Così come “sembrare una Lady Oscar”, ormai, è attributo speso per una bellezza femminile androgina. “Candy – hanno spiegato Nataloni e Torsello – è un personaggio veramente sfortunato. Tutti ricorderanno la morte a cavallo di Anthony, o quella in guerra di Steve. Candy soffre, conosce l’abbandono, la distanza, la sofferenza, il lutto. Il riscatto arriva nel finale, quando grazie ad Albert riesce a tornare all’orfanotrofio dove è cresciuta e a divenirne istitutrice. Una sfortuna, quella di Candy, che dal personaggio si è trasferita poi alla serie: è dal 1997, infatti, che non viene trasmessa. E questo perché le due autrici, Kyoko Mizuki e Yumiko Igarashi, dichiarate proprietarie dell’anime al 50 per cento ciascuna, non trovano accordi sulla cessione dei diritti”. Per chi è cresciuto negli anni Ottanta, pensare di non rivedere mai più Candy Candy sul piccolo schermo è veramente un duro colpo. Un’immeritata damnatio memoriae: anche perché, almeno lei, riusciva a sorridere nonostante tutto. “Capolavoro assoluto è Lady Oscar, che meriterebbe un approfondimento a parte. La storia rispetta tutte le tappe del viaggio dell’eroe, così come individuate dallo studioso e sceneggiatore Christopher Vogler. La vicenda della ragazza che diventa capitano delle guardie reali nella scricchiolante Versailles degli ultimi anni dell’Ancien Régime e che morirà il giorno della presa della Bastiglia è una serie di culto in tutto il mondo. Sì, perché Lady Oscar – concludono Nataloni e Torsello – è l’emblema della donna che accetta se stessa passando dal rifiuto della sua femminilità, dal dolore per la scelta compiuta, e arriva infine ad affermare i propri sentimenti più profondi, a rivelarli”.

Elisa Tambellini

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