Ilaria, la pietra e la carta

Sembra addormentata in un riposo sereno Ilaria Del Carretto, moglie del signore di Lucca, Paolo Guinigi, morta il 12 dicembre del 1402, e impietrata nel marmo bianco da Jacopo della Quercia, il più famoso scultore del suo tempo: le mani conserte sul petto e ai piedi un cagnolino, che, fedele custode da più di seicento anni, sembra impegnato a proteggere il sonno della sua padroncina. Nei dolci lineamenti del viso, nelle morbide pieghe della veste quattrocentesca che coprono un corpo rilassato e composto, Jacopo senese, artista inquieto e insofferente in fama di terribilità presso i contemporanei, ha voluto esprimere in maniera pacata e sommessa tutto il suo dissenso contro l’assurdità della morte, soprattutto quando colpisce giovinezza e bellezza. 

Non pochi i poeti che hanno saputo raccogliere la muta, discreta ma ferma protesta che promana da questo sepolcro. Manierato ed estetizzante, come al solito, Gabriele D’Annunzio:
Tu vedi lunge gli uliveti grigi
che vaporano il viso ai poggi, o Serchio
e la città dall’arborato cerchio,
ove dorme la donna del Guinigi.
Ora dorme la bianca fiordaligi
chiusa ne’ panni, stesa in sul coperchio
del bel sepolcro; e tu l’avesti a specchio
forse, ebbe la tua riva i suoi vestigi.
Ma oggi non Ilaria del Carretto
signoreggia la terra che tu bagni,
o Serchio, sì fra gli arbori di Lucca…
(Elettra, 1903)
Densi di temi privati e pubblici i versi di Salvatore Quasimodo, futuro premio Nobel per la letteratura:
Sotto tenera luna già i tuoi colli
lungo il Serchio fanciulle in vesti rosse
e turchine si muovono leggere.
Così al tuo dolce tempo, o cara, e Sirio
perde colore, e ogno ora s’allontana,
e il gabbiano s’infuria sulle spiagge
derelitte. Gli amanti vanno lieti
nell’aria di settembre, i loro gesti
accompagnano ombre di parole
che conosci. Non hanno pietà; e tu
tenuta dalla terra, che lamenti?
Sei qui rimasta sola. Il mio sussulto
forse è il tuo, uguale d’ira e di spavento.
Remoti i morti e più ancora i vivi,
i miei compagni vili e taciturni.
(Ed è subito sera, 1942)
Intensa la consonanza che il poeta siciliano riesce a stabilire tra il sonno solitario della sposa bambina, passata come meteora luminosa e breve nell’autunno del medioevo lucchese, privata della vita e delle sue gioie, e la propria condizione di uomo solo tra “compagni vili e taciturni”: vivi, ma più lontani, più remoti dei morti, chiusi nel loro egoismo, incapaci di aiuto, negati all’ascolto. Alta, densa poesia cui non appaiono inferiori i versi che, quindici anni più tardi, Pier Paolo Pasolini, dedicherà alla signora del Signore di Lucca:
Dentro nel claustrale transetto
come dentro un acquario, son di marmo
rassegnato le palpebre, il petto
dove giunge le mani in una calma
lontananza. Lì c’è l’aurora
e la sera italiana, la sua grama
nascita, la sua morte incolore.
Sonno, i secoli vuoti: nessuno
scalpello potrà scalzare la mole
tenue di queste palpebre.
Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia
perduta nella morte, quando
la sua età fu più pura e necessaria.
(Le ceneri di Gramsci, 1957)
Nella coscienza del poeta friulano, sempre oscillante tra passione regressiva e ragione rivoluzionaria, il sonno secolare di Ilaria coincide con quello dell’umile Italia popolare cara a Pasolini e da oltre mezzo millennio trascurata, abbandonata a se stessa. Sola, come Ilaria ormai fissata per sempre nel suo sepolcro. Ancora la voce di un poeta per Ilaria. Quella di Marco Lucchesi, fervido poeta brasiliano, nato mezzo secolo or sono a Rio de Janeiro da genitori toscani, professore universitario di letteratura italiana e traduttore in lingua portoghese di Foscolo ed Eco, Primo Levi, Dino Campana e Pasolini. Così, attraverso la figura della sposa del Guinigi, questo raffinato letterato d’oltreoceano nostro contemporaneo rielabora nella lingua degli avi il tema caro ai letterati d’ogni tempo, quello del contrasto tra la bellezza e la morte:
Così ti svesto
prima che il tempo
ingordo
di tua beltà ti svesta
bacio
le tue soavi gote
i seni
ascosi
come
augelli
al nido
la fronte
soave
d’imenei
il madido
fior di tuo
segreto
sublime
gioia
e rio dolore
così ti svesto
prima che il tempo
ingordo
di tua beltà ti svesta
(Lucca dentro, 2002)
Le suggestioni esercitate da questa perticolarissima tomba continuano ad agire sull’ispirazione degli scrittori di ogni tempo: sono arrivate anche a toccare gli anni recentissimi del millennio appena fuggito, riuscendo a oltrepassare i confini della letteratura ‘alta’ per alimentare il vischioso melting pot della letteratura di ‘genere’. Giorgio Celli (1935 – 2011), etologo di fama non solo televisiva e polemico letterato d’avanguardia nei suoi anni giovanili, individua proprio nella piazza del duomo di Lucca lo scenario privilegiato per concludere al meglio la vicenda horror/noir di un allucinato ritual killer, che, proprio nella tomba di Ilaria e nel suo autore, trova il motivo ispiratore delle proprie macabre ossessioni: “… e lui se ne andò come un fantasma dal cappotto ormai candido, per i vicoli silenziosi, lungo i viali di lecci e di platani verso il Duomo. Un orologio, nel buio, al di là di molte case cantò; era l’una e mezza. Pensò di aver dato troppo credito alla precisione dell’ora in cui sarebbe stato compiuto il sacrificio. E se l’avesse già sgozzata? Se, davanti al Duomo che ospitava il sarcofago di Ilaria del Carretto, la bella statua con il cagnolino ai piedi, avesse trovato solo un cadavere ancora caldo? Fu sicuro di no. I riti hanno le loro regole, che non possono essere per nessuna ragione trasgredite. La statua di Ilaria doveva essere, per forza, il feticcio per quel nuovo rito di sangue”. Sotto la quercia è un gustoso pastiche, tra storia, arte e romanzo d’indagine elaborato con l’intelligenza consueta in Giorgio Celli: di sicuro non sarebbe stato così intrigante senza la sfuggente magia di questa città e della sua più famosa abitatrice.

Luciano Luciani

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