Diventa vicepresidente di società ma continua a insegnare, docente condannata a restituire 103mila euro

Sentenza di primo grado della Corte dei Conti

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Docente di chimica diventa anche vicepresidente di una società, ma ora secondo la corte dei Conti, a seguito di accertamenti da parte della guardia di finanza, dovrà restituire 103mila euro, di cui 73. 657 euro in favore della scuola Ungaretti di Altopascio e 29.834,78 euro in favore dell’istituto tecnico agrario statale Dionisio Anzilotti di Pescia. Così ha stabilito la magistratura contabile nella sentenza di primo grado pubblicata nei giorni scorsi. Ci sarà tempo e modo per l’insegnante di fare appello e far valere le proprie ragioni.

La professoressa di chimica, 53 anni, per gli incarichi svolti dal 2011 al 2017, in una società di servizi di Porcari, secondo i giudici, non avrebbe chiesto alcuna autorizzazione alla propria amministrazione né avrebbe informato la stessa dello svolgimento della attività extra-professionale.

“Ed invero la prima comunicazione sarebbe avvenuta solo con la già citata nota  del 2 ottobre 2017, a distanza di tre mesi dall’assunzione dell’incarico cui si riferisce la medesima comunicazione (5 luglio 2017). La condotta omissiva avrebbe allora determinato una indiscutibile violazione delle disposizioni sopra richiamate e configurerebbe certamente una ipotesi di danno erariale tipizzato – a detta della corte dei Conti – la medesima condotta sarebbe connotata da dolo, quale “dolo contrattuale”, inteso come violazione consapevole degli obblighi di servizio”.

E proseguono i giudici: “Da tale condotta sarebbe derivato, nell’imposta attorea, il danno, rappresentato dall’ammontare degli importi percepiti dalla dipendente  per l’espletamento dell’incarico di presidente e vicepresidente della società nel periodo 1 giugno 2011–2 ottobre 2017, siccome somme indebitamente percepite e non riversate all’amministrazione scolastica”.

La procura aveva chiesto la condanna a 150mila euro ma i giudici hanno ricalcolato il danno agli istituti scolastici per cui lavora in 103mila euro. “In altri termini, lo svolgimento, da parte del pubblico dipendente, di attività professionale incompatibile, in assenza di autorizzazione preventiva, volta a rimuovere il predetto profilo d’incompatibilità ovvero, a maggior ragione, di attività del tutto incompatibile e, dunque, giammai autorizzabile, riveste carattere d’illiceità ed integra responsabilità erariale, per l’ipotesi di omesso riversamento all’amministrazione d’appartenenza dei compensi ricavati dalla medesima attività”. Questa la sentenza di primo grado.

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