Reintegro Ciancarellla, inammissibile il ricorso al Tar

Mario Ciancarella dovrà ancora attendere giustizia. Il capitano dell’aeronautica, per il quale è stato riconosciuto da un tribunale civile che la firma del presidente della Repubblica sul decreto di radiazione era falsa, si è infatti visto respingere oggi dal Tar della Toscana la richiesta di reintegrazione nel ruolo. La motivazione? Non aver, secondo il tribunale amministrativo, avviato il procedimento per il riconoscimento del torto subito subito dopo la radiazione, avvenuta nel 1983.
A nulla sarebbe valso il fatto che il ministero della difesa abbia rilasciato copia del decreto presidenziale che recava in calce la firma del presidente Pertini poi dichiarata falsa ‘solo’ nel marzo del 1982.

Il ricorso è stato dichiarato inammissimile: “Costituisce circostanza accertata – dice il Tar – che il ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto impugnato che ha disposto “la perdita del grado”, in un periodo molto risalente nel tempo, ponendo in essere un comportamento incompatibile con la volontà di opporsi al procedimento disciplinare. E’ lo stesso Ciancarella ad aver dichiarato di essere stato notiziato della sanzione di perdita del stato del grado a mezzo della trasmissione di un telex in data 20 ottobre 1983. Si consideri che detto telex conteneva tutti gli estremi di un atto conclusivo del procedimento disciplinare, facendo riferimento ai precedenti provvedimenti di sospensione e alla valutazione del consiglio di disciplina che, a sua volta, aveva disposto l’applicazione della sanzione della perdita del grado per rimozione. Nello stesso telex si faceva menzione anche della decorrenza della sanzione (a partire dell’11 ottobre 1983), comunicando che il provvedimento era in corso di perfezionamento. È sempre il ricorrente a confermare che il provvedimento definitivo di cui si tratta gli era stato comunque rilasciato (seppur in copia) in data 10 marzo 1992, mentre l’impugnazione (peraltro al tribunale di Firenze e mediante il proponimento di un’azione per querela di falso) è stata proposta solo il 26 ottobre 2010 e, quindi, dopo oltre 18 anni dalla data in cui ha ricevuto copia del provvedimento di rimozione e, ancora, dopo 27 anni dalla comunicazione del telex che fissava all’11 ottobre 1983 la decorrenza della stessa rimozione. Il ricorrente implicitamente fa decorrere il termine di centottanta giorni di cui all’articolo 31, quarto comma, del codice del processo amministrativo dal passaggio in giudicato della sentenza che ha accertato la falsità della firma del provvedimento recante la sua destituzione ma tale impostazione – impregiudicata ogni discussione circa l’individuazione del dies a quo dal quale decorre il termine decadenziale di cui si tratta – non si attaglia alla presente fattispecie. Il decorso di un periodo di tempo così lungo, come quello appena riportato, unitamente al fatto che è lo stesso ricorrente a dichiarare di aver intrapreso diverse attività lavorative, dimostra l’esplicarsi di un comportamento inequivocabile, che non può che integrare i presupposti dell’acquiescenza alle determinazioni assunte a seguito del procedimento disciplinare e della rinuncia a far valere i propri diritti”.
“E’ evidente – spiega ancora il giudice amministrativo – che un tale comportamento integra tutti i presupposti dell’acquiescenza, sussistendo la disponibilità del diritto, la piena conoscenza dell’atto o degli atti lesivi della situazione giuridica soggettiva e un comportamento spontaneo e di adesione alle altrui determinazioni. L’intervenuta acquiescenza ha l’effetto di prevalere anche sull’asserita imprescrittibilità dell’azione di nullità (secondo il regime ante articolo 31 comma 4 del codice del processo amministrativo), in assenza dell’impugnazione degli atti conclusivi del relativo procedimento e, ciò, in ragione della necessità di tutelare la certezza del procedimento amministrativo e della intangibilità degli atti non contestati”.
Uno spiraglio resta circa l’eventuali responsabilità dell’amministrazione pubblica. “È necessario comunque rilevare – spiega infatti il giudice amministrativo – l’esistenza di un comportamento dell’amministrazione certo non esente da critiche, circostanza quest’ultima che impone lo svolgimento di accertamenti ulteriori, diretti a evidenziare l’esistenza di eventuali responsabilità e la commissione di eventuali reati”. La sentenza, e l’intero fascicolo, sono quindi stati trasmessi alla Procura della Repubblica territorialmente competente.
Il collegio era composto dal presidente Manfredo Atzeni, dal consigliere Raffaello Gisoni e dal primo referendario ed estensore Giovanni Ricchiuto. Avverso alla sentenza è possibile il ricorso al Consiglio di Stato.

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