Picchiata e offesa per tre anni dal collega in un ufficio pubblico: anche il ministero condannato a risarcire la vittima di mobbing

Dopo le condanne penali e l'indennizzo dell'Inail adesso la Corte d'Appello ha riconosciuto responsabile in solido anche il dicastero

Presa a calci e offesa, sul posto di lavoro. Umiliata, vessata e sottoposta ad un trattamento che l’avrebbe presto condotta in uno stato di grave prostrazione.

Nel 2007 e nel 2008 arrivano due condanne penali per lesioni, ingiurie e percosse, con relativo risarcimento danni, nei confronti del suo aguzzino, finito nei guai per aver offeso e colpito la collega sul posto di lavoro in un ufficio pubblico di Lucca.

In uno di questi episodi la donna si frattura addirittura una vertebra dopo una rovinosa caduta a terra, a seguito di uno spintone, subendo anche alcuni calci da parte dell’uomo, e nel 2019 l’Inail le riconosce un indennizzo di circa 123mila euro per malattia professionale; restava da stabilire la cifra per il mobbing subito dalla donna sul luogo di lavoro da parte del suo diretto superiore.

La corte d’Appello di Firenze ha stabilito tale risarcimento in 50mila euro più interessi a carico del ministero delle infrastrutture e dei trasporti in solido con l’uomo responsabile dei reati e dei soprusi, “per una condotta illecita costituente mobbing, anche mediante dequalificazione”, come agli atti del processo e in sentenza. Una gran brutta storia che alla fine ha visto la donna vincere le varie cause in tutte le sedi giudiziarie contro il suo “aguzzino” che le aveva reso la vita un inferno con ripercussioni sulla sua salute, oltre che sul lavoro, sia dal punto di vista fisico che psicologico.

La donna ha poi ripreso a lavorare negli anni successivi cercando di lasciarsi alle spalle questi brutti ricordi. Ora dopo il risarcimento da parte dell’Inail avrà anche quello stabilito in sede civile relativo al mobbing subito per circa 3 anni con tutte le conseguenze che ha dovuto poi affrontare. I giudici nella sentenza hanno richiamato i pronunciamenti della Cassazione in materia, che presuppongono la responsabilità del datore di lavoro, in questo caso del ministero.

Si legge infatti in sentenza: “Secondo la suprema corte di Cassazione, in tema di mobbing la circostanza che la condotta provenga da un altro dipendente, posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, su cui incombono gli obblighi ex articolo 2049 codice civile, ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo. Nel caso in esame è stato riferito dai testimoni che la direzione dell’ufficio era stata più volte informata dei gravi comportamenti posti in essere dall’uomo: non può quindi essere negata la responsabilità del datore di lavoro, il ministero, sia sotto forma di mancata protezione della lavoratrice, sia per aver posto in essere direttamente atti dequalificanti nei suoi confronti ( privazione di mansioni, ripetuti spostamenti di ufficio ). Si consideri, nello stesso senso, anche la mancata attivazione in ordine alla domanda di riconoscimento della causa di servizio presentata dalla donna dopo i fatti”.

Per questi motivi la condanna in solido dell’uomo e del dicastero delle infrastrutture. “L’uomo deve essere ritenuto responsabile in solido con il ministero per l’intero danno in quanto i fatti più gravi sono riconducibili direttamente alla sua condotta (basta considerare le due condanne penali) ed il periodo nel quale egli se ne è reso responsabile copre buona parte di quello dedotto dalla donna con il ricorso di primo grado per cui non si ravvisano ragioni per escludere o limitare la sua responsabilità nei confronti della donna stessa. In conclusione, in riforma della sentenza di primo grado, la domanda della donna deve essere accolta nei termini suddetti”. Il ministero è stato condannato anche a pagare alla donna l’equo indennizzo previsto dalla legge più 13mila euro circa di spese legali.

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