Cinema, sul red carpet di Venezia anche un giovane regista di Lucca

In anteprima mondiale Caveman, il film documentario dedicato all'artista Filippo Dobrilla

Un tributo alla bellezza, all’arte, ad un grande uomo – prima che grande artista – e, perché no, anche all’amore. Sul celebre tappeto rosso della 78esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (1-11 settembre) quest’anno ci sarà anche Tommaso Landucci, giovane regista lucchese che presenterà in anteprima mondiale Caveman, il suo primo lungometraggio documentario dedicato all’artista e amico Filippo Dobrilla, che, pensate, ha realizzato una scultura a 650 metri di profondità, in una grotta sulle Alpi Apuane.

Proprio così: si tratta di un enorme nudo maschile in pietra, addormentato nell’oscurità, dove nessuno può vederlo. Un gigante che ritrae un grande amore, opera alla quale l’artista ha lavorato per oltre trent’anni calandosi nel buio di quella grotta, scolpendo la roccia nelle viscere della terra. Lontano dai pregiudizi, dalle chiacchiere, dalla gente. Un amore nascosto nel cuore della montagna, per amarlo in silenzio, senza paura, libero. Una storia troppo affascinante per non essere raccontata, talmente bella che l’anteprima a Venezia pare quasi un ‘premio’ ovvio. Eppure di attesa ce n’è stata tanta: “Venezia arriva come una liberazione – ha detto il regista sorridendo – il film era pronto da un pezzo, già dallo scorso anno, ma ci siamo dovuti bloccare a causa della pandemia. Abbiamo ricevuto altri inviti ad altri festival ma li abbiamo rifiutati: erano tutti festival che si sarebbero svolti online, sempre a causa della pandemia, e un film del genere avrebbe perso tutta la sua magia. Essendo nato come documentario per il cinema, molto lungo e silenzioso, senza interviste e molta poesia, necessitava di essere visto in sala, con un pubblico concentrato e attivo. Online perdeva tutto. Abbiamo aspettato dicendoci ‘vediamo come va’, e per fortuna è arrivata Venezia ed il suo grande schermo”.

Il documentario Caveman sarà presentato il 7 settembre alle Giornate degli autori, sezione Venice Night, durante la mostra del cinema di Venezia. L’anterprima sarà presentata anche l’8 settembre nella sezione del Queer Lion Award, anche conosciuto come Leone Queer, premio cinematografico attribuito annualmente al Miglior film con tematiche omosessuali & queer culture.

Una passione per il cinema, quella di Tommaso, iniziata ai tempi del liceo, quando i film si guardavano ancora in Dvd: “Una delle cose belle dei dvd – racconta – è che c’erano anche i contenuti speciali. I ‘dietro le scene’ dei film mi piacevano da matti, guardavo come mettevano le luci, scoprivo tutta la finzione che c’era dietro al prodotto finale. Dopo le superiori mi sono iscritto a ingegneria biomedica, mi piaceva anche devo dire, ma dentro di me sentivo che dovevo dare retta al mio sogno. Girai un cortometraggio per la selezione della scuola di cinema: non entrai per un soffio, ne prendevano solo sei ed io arrivai settimo. Ma non mi arresi: sono rimasto a Roma un anno, poi ci ho riprovato…e sono diventato regista”.

Ma perché un film dedicato a questo artista? “Filippo l’ho conosciuto per caso – ha raccontato – come tutte le cose belle che mi sono capitate nella vita. Mi sento molto fortunato per questo. Era il 2014 e stavo girando un cortometraggio. Mi raccontarono di questa figura, di questo personaggio molto eccentrico che diceva in giro di star facendo una statua in fondo ad una grotta. La grotta naturalmente non era facilmente accessibile, non tutti gli credevano. Per riuscire a vedere la statua bisogna calarsi in verticale in un abisso, profondo 650 metri, ci vogliono una decina di ore per arrivare all’opera, una trentina per tornare in superficie. Si chiama Abisso del Saragato, una caverna del monte Tambura, in Garfagnana. Incuriosito lo andai a conoscere, appena capii che era tutto vero gli chiesi di portarmi là con lui. La prima volta stetti in grotta con lui più di 30 ore. Forse fui anche un po’ incosciente ad andare, lui sicuramente un po’ matto a portarmici. Quello fu il ‘click’: quelle ore al buio insieme a lui ci legarono tantissimo. Una volta tornato su decisi di lavorarci”.

“Ho girato là alcune scene con una troupe attrezzata e specializzata capitanata da Tullio Bernabei, speleologo di fama che ha prodotto reportage anche per National Geographic. Con me – ha raccontato il regista – anche Francesca Zonars, direttrice della fotografia italo-greca con la quale lavoro spesso, e il data manager lucchese Duccio Lucchesi. E’ stato bellissimo ma difficile. Io avevo qualche rudimento di arrampicata e sono riuscito a scendere, ma per i poco esperti non era assolutamente fattibile. Già io ero molto al limite, a livello fisico ma anche mentale: stavamo là dentro tante ore a girare, se non giorni”.

“Dopo aver girato qualche scena in autonomia – spiega Landucci – abbiamo portare il materiale ad una casa di produzione e il progetto ha iniziato a prendere un’altra forma. Quando giri un documentario del genere è importantissimo instaurare un rapporto di fiducia con chi dovrà parlare in camera e farsi riprendere: Filippo l’ho conosciuto nel 2014 e da lì in poi abbiamo girato insieme tante piccole riprese, a casa sua, all’Expo di Milano dove aveva una sua opera. Tra una scena e l’altra sono passati anche anni, anche se il nostro rapporto ha continuato anche a telecamere spente. Per mettere insieme tutti i pezzi c’è voluto tanto tempo, circa quattro anni. Il montaggio doveva durare molto meno, ma purtroppo Filippo si è ammalato ed è cambiato tutto, stravolgendo il lavoro”.

“Purtroppo Filippo ha scoperto di avere un tumore mentre stavamo girando le riprese e nell’estate del 2019 se ne è andato. Ha voluto filmare anche questa parte della sua vita. I momenti più emozionanti che ho girato sono stati sicuramente in ospedale: eravamo una piccola troupe ma quando si è ammalato, un po’ per sua volontà, un po’ per le regole del reparto, siamo rimasti io e lui da soli. Fuori dall’ospedale mi aspettavano Duccio e Francesca, se avessi avuto problemi tecnici sarebbero corsi a darmi una mano con audio e video, ma dentro in stanza con lui ero da solo. Il rapporto di fiducia si è intensificato, è stato difficile, un momento forte. Per me era la prima volta che stavo vicino ad una persona che stava per morire e, in qualche modo, lui mi stava affidando la testimonianza della sua morte. E’ stato duro anche il momento del montaggio: sapere che stavamo creando qualcosa che lui non avrebbe mai visto faceva male. Un’emozione forte, un grande cruccio che porterò con me per sempre: Filippo questo film non lo ha visto. Ne abbiamo parlato a lungo, abbiamo deciso insieme di girare alcune scene, di leggere alcuni testi, per lo più sue lettere alle quali darà la voce l’attore fiorentino Alessandro Benvenuti. Però è un peccato che lui non lo abbia mai visto”.

“Un peccato anche alla luce del covid – dice Landucci – All’inizio delle riprese ero molto attratto dall’etica, sul perché fare questa statua in fondo ad una grotta. Ero molto attratto anche dai numeri, diciamo alla parte più sportiva del film: 650 metri di profondità, 30 ore per salire, 10 per scendere. Alla fine invece tutto questo non c’è. Non c’è una voce che spiega quante ore ci vogliono per salire e per scendere, l’epicità sportiva è stata tolta per valorizzare quello che è il potere dell’arte. Il film spiega come in un mondo che vive di apparenze Filippo scelga di scolpire una statua in un luogo in cui nessuno potrà vederla. Arte invisibile. E invece abbiamo visto quanto è servita l’arte in questo periodo difficile per tutti noi, quanto sono serviti i film, quanto sono serviti i libri in un momento in cui dovevamo restare chiusi in casa. L’arte ti salva”.

E dopo Venezia, anche un progetto finalista del Premio Solinas: I figli della Scimmia, scritto insieme a Damiano Femfert. “Un film sull’amore per i figli – spiega Landucci – Sul fatto che sono persone e non nostre estensioni. Il premio Solinas è un buon premio, quindi sono molto felice, e in finale ci sarà anche un’altra lucchese, Benedetta Mori. Un po’ di campanilismo non fa mai male”.

Il regista

Tommaso Landucci è nato a Lucca nel 1989. Nel 2011 è stato accettato al corso di regia del Centro sperimentale di cinematografia di Roma sotto la direzione di Daniele Luchetti, diplomandosi nel 2013. Dal 2012 al 2016 ha lavorato come primo o come secondo assistente alla regia, legandosi a Claudio Giovannesi durante le riprese del film “Alì ha gli occhi azzurri” e in modo particolare al regista Luca Guadagnino durante il film “A Bigger Splash” di cui ha seguito la realizzazione dalla preparazione fino alla chiusura della post-produzione.
Lavorare per Guadagnino è stata un’esperienza altamente formativa. Il fatto di ricoprire il ruolo di suo assistente personale lo ha reso partecipe a tutti i processi di scrittura, di regia e di produzione di un film internazionale e di molti aspetti dei successivi progetti, al tempo in sviluppo. Nel 2017 incontra il regista James Ivory che diventa suo mentore oltre che Executive Producer e Script Editor del suo primo progetto di lungometraggio dal titolo “I Levitanti” – scritto insieme al romanziere tedesco Damiano Femfert e selezionato all’MFI Script 2 Pitch Workshop – oggi opzionato da The Family/Maremosso di Ada Bonvini e Mood Film di Tommaso Arrighi. Attualmente sta sviluppando due progetti cinematografici: “Re di Venere”, scritto insieme alla romanziera Michela Murgia e “Il mio erede”, sceneggiatura scritta insieme a Damiano Femfert e finalista del Premio Solinas 2021.
Caveman è stato prodotto da Marco Visalberghi per DocLab (Leono d’oro per Sacro Gra di Gianfranco Rosi) e da Ivan Madeo per Contrast Film, con l’affiancamento del produttore creativo Dario Zonta. Il documentario è stato finanziato attraverso il MIBAC, la Toscana Film Commission, il Lazio Cinema International, con il supporto di Rsi, FilmCoopi e di fondi svizzeri.

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