Lucca in fuga dagli involtini primavera. La paura del coronavirus investe i ristoranti cinesi foto

In crisi i ristoranti di sushi, non i centri commerciali. Gli esercenti: "Venire dalla Cina non equivale a essere infetto"

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259 decessi, oltre 11mila i contagiati, migliaia i casi sotto osservazione. Ma è solo un bilancio provvisorio: dopo aver sfondato le frontiere orientali, il 2019 n-Cov, comunemente noto come coronavirus, si sta diffondendo nel mondo. Dalla Cina all’America, passando per l’Asia, l’Oceania e l’Europa.

L’Italia non fa eccezione: giovedì a Roma il primo caso accertato, due coniugi cinesi in vacanza nel bel paese. Una notizia che è rimbalzata su tutti i media, spargendo paura e diffidenza: solo ieri a Firenze, l’episodio di un uomo contro una comitiva. “Andate a tossire a casa vostra”, ha inveito sprezzante.

Ma da casa loro, volenti o nolenti, i turisti dagli occhi a mandorla non si muoveranno per un po’: almeno non verso la nostra penisola. È stato il premier Conte ad annunciare alle 22,30 di giovedì, il blocco aereo da e verso la Cina: la misura contro il coronavirus più restrittiva d’Europa.

Parallelamente, le dichiarazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità: “È emergenza internazionale di salute pubblica”, afferma. Cosa significa esattamente? Che la situazione è “seria, improvvisa, inusuale o inattesa”. E le elevate “implicazioni per la salute pubblica al di là dei confini dello stato affetto” richiedono una “immediata azione internazionale”, spiega il sito dell’Oms. Senza lasciar spazio a eventuali dubbi: in gioco c’è la vita delle persone. “Tuttavia – avverte il presidente – non bisogna cadere in allarmismi: in Italia la situazione è sotto controllo. Non siamo preoccupati, bensì vigili e prudenti”.

Ma nonostante l’invito alla calma, nel nostro paese la paura c’è. “Chi viene dalla Cina non entri qui”, avvertiva il cartello di un bar, davanti alla fontana di Trevi. E il sushi, tanto amato dagli italiani, lo si evita.

I ristoranti cinesi? Neanche a parlarne ovviamente. Da nord a sud si salutano gli involtini primavera per una pizza, o un piatto di spaghetti. Il risultato? Una perdita di fatturato del 70 per cento per le 5mila attività orientali, stima l’ufficio studi Fipe-Confcommercio.

Una tendenza confermata dalla nostra città: mentre nei negozi cinesi l’affluenza non varia – “La gente continua a comprare, è tranquilla”, raccontano dall’Happy Mercatone di Pontetetto e dal Mercatone 8 di via Diaz – il settore della ristorazione va a picco.

“È un calo inarrestabile, del 90 per cento. Iniziato la settimana scorsa, e adesso è un disastro. Sia a pranzo sia a cena, l’affluenza è inesistente. I clienti si stanno volatilizzando – dice preoccupato il responsabile di Oishii, noto sushi restaurant sulla via Pesciatina – Ci possiamo scordare il tutto esaurito: è un vero danno per noi, colpa di una fobia di massa. La gente pensa che i cinesi siano automaticamente portatori del coronavirus, ma tutto il nostro staff è residente qui da anni ed è tantissimo tempo che non tocchiamo il suolo cinese. Tuttavia questo non basta per rassicurare”.

“L’essere orientale è un marchio – aggiunge pensieroso – Un po’ come quando si vede una prostituta e la si collega subito all’hiv, o un nero all’ebola. Sarà per il caso scoppiato a Roma, ma bisogna sottolineare che la coppia di coniugi positivi al virus è turista, non residente”.

Stessa situazione a San Marco: “C’è pochissimo lavoro. Hanno paura dei cinesi, ma noi siamo sempre stati qui, da anni ormai viviamo a Lucca. Siamo veramente danneggiati da questo atteggiamento. Capisco i clienti, e anche noi abbiamo paura: ma la nostra preoccupazione è doppia – spiegano dal ristorante New Hong Kong –  Se il locale si svuota, noi non andiamo avanti. Ieri solo 18 clienti in tutto il giorno. Alcuni di loro ci rassicurano, dicono di non aver paura, perché, come tengo a precisare, la nostra carne, verdura e pesce non viene mica dalla Cina. È tutto di qui”. Lo dice molto amareggiata. E comprensibilmente.

Lo scenario infatti è davvero inquietante: tavoli vuoti, nessuna prenotazione. Nella grande sala un tempo gremita, solo gli echi di una clientela scomparsa: le bacchette impacchettate, i cuochi fermi, spaesati. La frenetica attività dei camerieri, un lontano ricordo: “Non mi è mai capitato di starmene con le mani in mano – racconta uno di loro – C’era sempre qualcosa da fare, solitamente: ai tavoli i clienti si davano il cambio senza sosta. La nostra speranza è nel vaccino: e negli scienziati, che ci stanno lavorando”.

Una cura che per ora, tuttavia, non esiste: “Le aziende biotecnologiche lo stanno studiando, ma i tempi sono lunghi e non si possono fare previsioni. Servono anni e anni di ricerca per elaborare un farmaco, un processo che comporta numerosi test clinici. Un vaccino non si scopre da un giorno all’altro – spiega Ambra Del Grosso, biologa molecolare dell’istituto di nanoscienze Cnr di Pisa – Anche se con la dichiarazione dell’Oms, si potrebbero accelerare i tempi. Ma nel frattempo, non bisogna lasciar spazio all’allarmismo: l’essere cinesi non equivale ad essere infetti. Un’ovvietà che è importante ricordare, viste le tendenze in atto. Fondamentale adesso è eliminare il focolaio, isolando chi presenta i sintomi. Un metodo già in atto in modo capillare anche in Italia”.

Inutile negarlo, quindi: anche a Lucca il coronavirus fa paura. Ma se la sua genesi non è chiara, certa è invece la modalità di diffusione: per via aerea, in particolare attraverso lo starnuto. Proprio come l’influenza, cui del resto somigliano i sintomi (febbre, tosse, difficoltà a respirare).

Nonché le misure preventive da attuare: lavarsi le mani spesso, con sapone e acqua calda, evitando i luoghi affollati e il contatto diretto con chi è stato in Cina. Da ricordare il numero verde attivo 24 ore su 24, per eventuali segnalazioni o informazioni: 1500.

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