L’attivista Rahel Saya: “Se fossi rimasta in Afghanistan ora sarei morta” foto

La testimonianza choc della giornalista a Palazzo Ducale

In Afghanistan le donne non possono andare in bicicletta, ridere per strada, mettersi lo smalto alle unghie. Non possono nemmeno lavorare, andare a scuola, far volare un aquilone. Divieti talmente assurdi che sembrano bugie, leggende che si raccontano per intrattenere qualcuno ma che non sono vere. Invece purtroppo dal 15 agosto del 2021, con il ritorno dei talebani al potere, tutto questo in Afghanistan è tornato ad essere realtà. Tutti quei divieti assurdi che c’erano nel paese alla fine degli anni Novanta sono tornati, e dopo quasi vent’anni di progresso, di diritti riconosciuti e libertà, queste regole scritte ormai nere su bianco bruciano come frustate.

Oggi (26 novembre) dopo le celebrazioni della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne Palazzo Ducale ha ospitato – grazie a Fidapa della sezione di Lucca – un convegno dedicato a denunciare le più grandi violenze di un popolo tornato a soffrire.
L’evento è stato aperto dalla presidente, Emiliana Martinelli, ed ha avuto come ospite speciale Rahel Saya, attivista e giornalista afghana che all’alba del 25 agosto scorso è riuscita miracolosamente a lasciare Kabul e raggiungere l’Italia. Presenti anche il sindaco di Lucca Alessandro Tambellini, il giornalista di guerra e moderatore della serata Alidad Shiri, Patrizia Fedi Bonciani di Fidapa Livorno, Silvia Redigolo della Fondazione Pangea onlus e il fotoreporter Ugo Panella.

Un convegno che, nel l’ampio pubblico di Palazzo Ducale, ha senza dubbio lasciato il segno: “Se fossi rimasta nel mio paese sarei già morta. Quando ero in Afghanistan ho criticato i talebani, è un miracolo che io sia qui, viva, adesso”.
Con queste parole la giovanissima giornalista afgana ha fatto breccia nel cuore della presidente di Fidapa Lucca, che ha voluto ad ogni costo averla come ospite per dar voce alle donne vittime di quei “signori del potere”.

Rahel Saya ha ventuno anni e ciò che hanno fatto i talebani in passato lo ha saputo solo grazie ai racconti in famiglia o guardando i documentari alla tv. E’ stata fortunata: è nata e cresciuta in quelli che sono stati gli anni in cui le donne hanno potuto finalmente iscriversi a scuola, imparare a guidare, lavorare. Lei ha studiato legge e scienze politiche all’Università di Kabul ed è stata uno dei volti di punta dell’emittente Radio-Tv Andisheh. Oggi le donne giornaliste non possono più lavorare, tante sono fuggite come lei, tante invece sono state uccise. Nei suoi servizi, documentari e reportage da diverse zone dell’Afghanistan ha raccontato storie di coraggio di donne e bambine che lottavano per l’affermazione delle loro libertà civili, subendo numerose minacce e intimidazioni.

“La sezione di Lucca, che presiedo per questo biennio 2021-2023, – ha dichiarato Emiliana Martinelli, – sta organizzando una serie di iniziative di  solidarietà tese a sostenere le donne Afgane giunte in Italia e a esprimere la solidarietà che questa tragedia richiede, in linea con il motto della Fidapa che è sempre stato Libertas, e con le sezioni della Toscana litoranea vogliamo denunciare le più grandi violenze. Quando ho letto le parole di Rahel mi sono impressionata: firmava quelle denunce addirittura con il suo nome. Non è stato facile, ma sono emozionata ad averla qui oggi”.

A prendere parola anche il sindaco Tambellini: “Il mio timore per ciò che accade nel mondo è che quel vecchio detto diventi realtà: ‘lontano dagli occhi, lontano dal cuore’. Le immagini che abbiamo visto ai telegiornali ad agosto ci hanno lasciati tutti sbigottiti, rammaricati. Temo che le persone adesso abbiano già dimenticato, che siano tornate a vivere la loro normalità. Ciò che è certo è che alcune cose non accadono da sole: i talebani sono di nuovo al potere perché qualcuno glielo ha permesso, ci sono state le condizioni per farlo. C’è senza dubbio tanto lavoro da fare, ma mi auguro che Lucca dimostri ancora una volta umanità e civiltà verso queste persone, due principi fondamentali per essere una buona comunità. Come Comune siamo stati e siamo ancora oggi impegnati nell’accoglienza, soprattutto di minori non accompagnati. Non è mai stato semplice. Ma questo deve essere un percorso di accompagnamento, non dobbiamo limitarci alla sola accoglienza. E dobbiamo farlo tutti insieme, perché da soli non si fa niente”.

Commoventi anche le parole del giornalista Alidad Shiri: “In questi ultimi anni, fino al 15 agosto scorso, in parlamento c’era il 27 per cento delle donne, centinaia di giornaliste, molte donne erano impegnate anche nel mondo accademico. Non è stato semplice perché l’Afghanistan era comunque un paese in cui vi era molto fondamentalismo e sì, anche maschilismo. Per le donne è stata una grande sfida, ma ce l’hanno fatta. Adesso tutto questo ci è stato portato via. Le donne non possono più lavorare e molte di loro sono rimaste anche vedove con bambini da sfamare. I prezzi sono aumentati, le famiglie in preda alla disperazione stanno vendendo le proprie figlie come spose o gli organi dei figli maschi. Per non parlare del grande aumento di spaccio di eroina, che ad oggi è l’unico mercato che alza il Pil del paese e arricchisce i signori dell’oppio. Noi dobbiamo essere la voce di queste donne: loro non si sono mai fermate, stanno protestando perché non vogliono tornare a vent’anni fa. Vogliono tenersi tutto ciò che si sono guadagnate, di diritto. Non possiamo far finta di non vedere”.

“Non avrei mai pensato di diventare una profuga e di lasciare il mio paese – ha detto Rahel – Le immagini che avete visto in televisione non sono niente in confronto a ciò che ho visto io con i miei occhi. Io sono riuscita a scappare, molte altre ragazze come me invece sono ancora là. Per me è un dolore incancellabile. Amavo il mio lavoro e il mio paese. I talebani sono riusciti a cancellare i nostri sogni, non sono ancora riuscita a realizzare che tutto questo sia accaduto veramente. Il mio popolo non merita tutto questo. E’ successo tutto all’improvviso: era un mercoledì mattina, le 9, io andavo a lavoro come ogni giorno. E poi il caos. Non abbiamo capito più niente. Siamo rimasti soli come uccelli che vagano nel cielo senza trovare più il loro nido. Vorrei che tutti voi foste voce di quelle donne rimaste là nel mio paese. Essere una ragazza in Afghanistan non è mai stato semplice: devi avere la mentalità di una persona anziana e la forza di un uomo”.

Importante anche l’intervento della Fondazione Pangea, organizzazione no profit che dal 2002 lavora per favorire lo sviluppo economico e sociale delle donne, delle loro famiglie e delle comunità: “Nel 2001 le donne afgane si suicidavano, adesso scendono in piazza. Sono finalmente diventate consapevoli di ciò che sono, dei loro diritti, e non vogliono perdere tutto questo. I rastrellamenti non sono mai finiti, la Fondazione per mettere al sicuro le donne ha dovuto bruciare un sacco di documenti. Come fondazione abbiamo tracciato tutti i bisogni delle donne rimaste là e dei loro bambini, molti per fortuna siamo riusciti a portarli in Italia. Siamo in periodo di grave crisi umanitaria e tra poco in Afghanistan arriverà l’inverno, che arriva a contare anche -20 gradi. La gente ha fame, andrà scalza nella neve. Non amo quando il popolo afgano viene generalizzato: non è vero che gli uomini sono tutti talebani e maschilisti. In questi anni Pangea ha organizzato tantissimi corsi per le donne e loro ne erano entusiasti, ci hanno ringraziato molto per il lavoro che stavamo facendo con le loro mogli. Sapevano che gli faceva bene e che avrebbe fatto bene anche alla famiglia. Fare un corso sull’igiene in Afganistan dove ci sono ancora le fogne a cielo aperto, significa meno malattie e meno morti. Con il microcredito che abbiamo creato mandavano i figli a scuola, sia maschi che femmine. Purtroppo oggi ci scrivono in tantissimi, molti su whatsapp ci mandano la foto dei loro piccoli e ci scrivono “per favore salvateci”. E’ tremendo dover fare una selezione, ma purtroppo anche in Italia non possiamo portare tutto il paese. Non è questa la soluzione. Creare un corridoio umanitario con l’Afhanistan significherebbe riconoscere il potere dei talebani, e questo non deve accadere. Anche oggi ci siamo commossi, abbiamo speso tante belle parole, ma la verità è che c’è bisogno di fondi, serve un’azione concreta per aiutare queste persone. E noi per loro ci siamo, come ci siamo sempre stati: glielo abbiamo promesso e manterremo la parola”.

“I talebani non se ne sono mai andati, hanno solo tolto il tarbunta – ha detto il fotoreporter Ugo Panella – Loro sono gli stessi, hanno lo stesso volto, anche se negli anni Novanta erano considerati terroristi, mentre ora in molti vogliono farci affari. Ciò che è diverso è la popolazione che hanno trovato: adesso si ha più coscienza, si fa resistenza. Soprattutto le nuove generazioni”
La serata si è conclusa con un cortometraggio sul tema dell’emigrazione e dell’integrazione realizzato che realizzato dal registra Amin Wahidi, premio città di Venezia.

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