“Abbassare le imposte, aumentare la spesa pubblica e sostenere la domanda”: la crisi secondo Morroni

Il docente di economia politica all’Università di Pisa: "Di fronte alla caduta dei consumi e degli investimenti, politiche di austerità farebbero peggiorare la situazione"

I casi di contagio sono in calo e gli ultimi dati sull’emergenza sanitaria da Coronavirus sono incoraggianti. Ora, però, servono le misure economiche. Ma quali? Lo abbiamo chiesto a Mario Morroni, docente di economia politica all’Università di Pisa e promotore di una lettera aperta, firmata da oltre 1850 economisti in tutto il mondo, rivolta alle autorità europee.

Partiamo da alcune considerazioni di carattere generale: cosa può succedere alle imprese e ai lavoratori? Quali sono i rischi e quali, se ce ne sono, le opportunità?
La diffusione del coronavirus ha determinato uno choc da offerta e da domanda. Choc da offerta perché alcune imprese hanno chiuso temporaneamente l’attività e quindi si è interrotta la fornitura di molti semilavorati e beni finali. Shock da domanda perché molte famiglie sono costrette a consumare meno. Le imprese che hanno momentaneamente chiuso hanno ricavi zero a fronte delle spese fisse che comunque vanno sostenute, quindi subiscono notevoli perdite. I lavoratori delle imprese che hanno chiuso sono a casa in attesa della cassa integrazione o di un sussidio di disoccupazione. Molti lavoratori con partita Iva sono bloccati in casa a reddito zero. Il crollo dei redditi e della domanda comporta una caduta della produzione che aggrava ulteriormente la situazione delle imprese.

Sono circolati diversi studi e stime sui tagli alla sanità. Alcuni suggeriscono che negli ultimi 20 anni la spesa sanitaria sia cresciuta in termini assoluti, ma altri obiettano che bisogna tener conto dell’inflazione. Cosa è successo effettivamente?
Dal 2010 al 2019 il finanziamento pubblico del sistema sanitario nazionale è aumentato in media dello 0,9% all’anno contro un aumento medio annuo dei prezzi pari a 1,07 %. Quindi il finanziamento è cresciuto meno dell’inflazione. Questo ha comportato una diminuzione del finanziamento in termini reali. Negli ultimi dieci anni la quota del finanziamento al sistema sanitario nazionale rispetto al Prodotto interno lordo è scesa, passando dal 7% al 6,6%, con un taglio di 0,4% del Pil. I tagli alla sanità hanno portato, in meno di dieci anni, a una riduzione di 8 mila medici e di circa 13 mila infermieri. Molto consistente è stata la riduzione del numero di posti letto di degenza: dal 1998 al 2017 si è passati dal 5,8 a 3,6 posti letto per 1000 abitanti. Nello stesso periodo c’è stato un dimezzamento anche dei posti letto in terapia intensiva. Ora in Italia ci sono 12,5 posti di terapia intensiva per 100 mila abitanti, contro, per esempio, i 15, 9 del Belgio e i 29,2 della Germania.

Che cosa sono gli Eurobond e perché alcuni paesi, tra cui l’Italia, li vogliono e altri no? Cosa succederà se verranno emessi i cosiddetti coronabond? Come sta reagendo, nel complesso, l’Unione europea?
Appena scoppiata la crisi, dovuta alla diffusione del coronavirus, i principali responsabili politici europei hanno mantenuto posizioni molto rigide, manifestando una notevole lentezza nel comprendere la gravità della crisi economica. Lo testimonia il madornale errore di comunicazione della presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde, che un paio di settimana fa ha dichiarato: “Non è compito della Bce occuparsi della riduzione dello spread” tra i tassi di interesse dei vari Paesi. L’effetto negativo, prevedibile, è stato immediato: si è avuto un aumento dello spread dei titoli del tesoro italiani. Questa gaffe non è però stata estemporanea perché riprendeva un’affermazione della tedesca Isabel Schnabel del Comitato esecutivo della Bce. Non meno criticabile è la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, che ha recentemente affermato di comprendere la diffidenza tedesca nei confronti della proposta di emissione di eurobond. Questa dichiarazione in favore della posizione del proprio Paese da parte di una rappresentante di un organismo sovranazionale europeo appare inappropriata.

Negli ultimi giorni si registra un progressivo cambio di rotta da parte delle autorità europee e dei parlamentari europei. La Bce ha adottato una politica monetaria espansiva a sostengo dei crescenti deficit nei conti pubblici dei paesi dell’Eurozona. Si percepisce una minor rigidità da parte degli esponenti politici del Nord Europa nel considerare l’ipotesi di emettere qualche forma di debito comune per quanto riguarda le nuove spese. Il Parlamento europeo ha bocciato la proposta dei verdi di istituire degli eurobond per mutualizzare il debito futuro, ma ha dato un’indicazione al Consiglio europeo, in favore dell’adozione di ‘recovery bonds’ emessi da un organismo europeo e garantiti dal bilancio 2021-2027 dell’Ue. La rapida evoluzione del dibattito politico in corso è influenzata dalla crescente pressione dell’opinione pubblica che si domanda quale sia il significato dell’integrazione europea se, in questo momento così grave, l’Unione europea non manifesta una reale solidarietà verso i propri cittadini colpiti dalla pandemia e non è in grado di adottare le misure economiche necessarie a evitare che l’Europa sprofondi in una recessione senza precedenti.

Ci dobbiamo aspettare dieci anni di austerity di impronta thatcheriana, sulla base di quelle che potrebbero essere le scelte europee? In tempi di austerità i primi servizi a essere tagliati sono quelli di welfare che magari non portano a una remunerazione diretta. È una scelta giusta o sarebbe opportuno continuare a investire in questi servizi?
Di fronte alla caduta dei consumi e degli investimenti determinata dalla crisi sanitaria, politiche di austerità non farebbero che peggiorare la situazione. In questo momento è assolutamente necessario abbassare le imposte e aumentare la spesa pubblica per finanziare le imprese e le famiglie in difficoltà. È inoltre necessario sostenere la domanda con un piano di investimenti pubblici nel settore sanitario e scolastico. Gli investimenti pubblici dovrebbero anche riguardare le infrastrutture e la messa in sicurezza idrogeologica del Paese, l’ambiente e il patrimonio culturale.

Nonostante da più parti arrivino appelli per una soluzione europea condivisa, la percezione è quella di un euroscetticismo in crescita. L’idea è quella che l’Unione europea sia distante dall’Italia anche nel momento del bisogno. Quali sarebbero per l’Italia le conseguenze di breve e di lungo periodo dell’uscita dall’Ue?
Certamente la struttura istituzionale incompleta dell’Eurozona, con una moneta senza stato, e la politica tedesca, basata su un permanente avanzo commerciale, hanno danneggiato notevolmente i Paesi dell’area mediterranea e hanno portato a un crescente divario nella crescita dei Paesi membri. È molto difficile fare previsioni sulle conseguenze di un’eventuale uscita dell’Italia dell’Ue perché i vantaggi e svantaggi di stare nell’Eurozona dipendono anche dalle future politiche della Banca centrale europea e della Commissione europea, così come i vantaggi e svantaggi dell’Italexit dipendono da come viene gestita l’uscita e quindi dalle capacità del governo in carica in quel momento. Certamente la nuova lira si svaluterebbe di un 30-40% rispetto all’euro. Ciò permetterebbe un recupero di competitività delle nostre esportazioni, ma crescerebbe il prezzo dei beni importati, e quindi il potere d’acquisto dei salari diminuirebbe. Comunque, non sarebbero rimosse le cause della perdita di competitività, che hanno portato alla svalutazione del cambio.

Come valuta le misure economiche adottate finora dal governo italiano? Il primo decreto che riguardava l’economia è stato firmato martedì 17 marzo, è arrivato troppo tardi?
Sono misure indispensabili. Il problema riguarda: i tempi burocratici molto lunghi, l’entità per ora insufficiente degli aiuti e le modalità di attuazione. Le imprese trovano difficoltà ha ottenere il prestito di 25mila euro garantito dallo stato. E alcune banche tendono a usarlo per garantire il ritorno di vecchi prestiti, anziché erogare un nuovo prestito. Quindi il provvedimento rischia di tradursi in un aiuto alle banche invece che alle imprese. La Banca centrale europea dovrebbe finanziare direttamente le famiglie e le imprese in tempi brevissimi, perché se non s’interviene rapidamente i danni potrebbero essere gravi e irreversibili. C’è un brusco aumento delle famiglie in stato di povertà e un’impresa che chiude non riapre più.

Secondo Keynes uno dei settori principali su cui investire per far ripartire l’economia era l’edilizia pubblica. Nel bacino del Valdarno abbiamo due grandi distretti: quello conciario e quello cartario, ciascuno con le sue peculiarità. Che ruolo giocheranno queste produzioni e tutto il settore manifatturiero nella ripartenza? 
Un piano di investimenti pubblici in infrastrutture e ambiente, come indicato sopra, porterebbe a una ripresa economica con effetti positivi sul tutto il settore manifatturiero e quindi anche sui settori di attività presenti nel Valdarno. A tale proposito, insieme al collega Pompeo Della Posta abbiamo lanciato un appello alle autorità italiane riguardante i provvedimenti urgenti per far fronte alla crisi economica dovuta alla diffusione del coronavirus. In un secondo tempo abbiamo coinvolto alcuni economisti italiani e stranieri nella preparazione di un appello rivolto alle autorità europee.

La raccolta delle firme è stata facilitata dalla creazione di un sito con il testo dell’appello e il modulo da compilare. Il sito è stato creato e gestito da Giuseppe Cusumano, studente al Dipartimento di Scienze Politiche (il link al sito dell’appello è https://europeanrenaissance.altervista.org/).

In un paio di giorni abbiamo raggiunto 1850 adesioni di economisti di diverse scuole di pensiero, appartenenti a più di 550 università europee. Va notato che tra i firmatari della lettera aperta ci sono anche 136 economisti tedeschi e 30 olandesi. Questo è un segnale che anche molti autorevoli esperti tedeschi e olandesi non concordano con la posizione dei loro governi contraria all’introduzione di eurobond. Rispetto ai vari appelli usciti in queste ultime settimane, la nostra lettera aperta si differenzia perché è sottoscritta da una larga comunità scientifica di economisti e quindi fornisce un parere qualificato sui provvedimenti urgenti di politica economica che l’unione europea dovrebbe adottare per far fronte alle conseguenze della pandemia. L’appello ha quindi esercitato un ruolo di particolare rilievo nel creare una piattaforma nella quale si è riconosciuta una larga comunità scientifica.
L’ampia adesione all’appello è dovuta alla percezione dell’estrema gravità della crisi economica e sociale determinata dalla diffusione del coronavirus e all’esigenza di convincere i responsabili delle politiche economiche nazionali ed europee a prendere decisioni adeguate alla portata del fenomeno. Nell’appello proponiamo l’emissione di ‘European Renaissance Bond’, garantiti dalla Banca centrale europea e finalizzati a sostenere la domanda e il reddito, rilanciando gli investimenti in infrastrutture, ambiente e patrimonio culturale.

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