Ndoye Daouda: “Sì alla cultura dell’accoglienza”

Una riflessione sull’immigrazione e sulla cultura dell’accoglienza. E’ quella che offre il sindacalista Ndoye Daouda.
“Nel nostro paese – si legge – l’integrazione è un’integrazione subalterna: pur aprendo agli stranieri, non li si utilizza secondo le loro qualificazioni e capacità professionali. Così si ha l’assurdo di medici o ingegneri costretti a fare i giardinieri, i manovali, ragazze laureate assunte come domestiche. È un vero spreco di energie. Non si capisce che assumendo stranieri in questi settori, non solo vengono integrati, ma anche danno un contributo attivo al paese che li ospita. Si concepisce ancora troppo l’immigrazione come un dare da parte del paese che accoglie (“ah, questi poveracci”) e non si pensa che può essere un dare e un ricevere, una ricchezza. Nella mentalità comune, lo straniero è colui che viene a togliere qualcosa. Ma non si pensa che anche lui ha qualcosa da dare: la sua intelligenza, la sua saggezza, il suo modo di fare. Gli stranieri non vogliono certo annientare la cultura italiana. Ma neanche l’italiano può annientare la cultura di chi viene. L’altro mi porta anche qualcosa, se c’è questo atteggiamento di apertura, accoglienza, dialogo, attraverso cui ci si conosce. Per arrivare a conoscere l’identità di ciascuno, ci vuole il dialogo, ci vogliono momenti d’incontro: attraverso momenti ricreativi, culturali, conferenze. E perché no, anche gastronomici. Così si impara ad apprezzare quello che l’altro è, ad avvicinarlo liberi da pregiudizi, facendo conoscenza con ciò che fa, con la sua mentalità”.

“Se c’è quest’apertura positiva – dice Ndoye – e vedo l’altro come una possibilità, allora tutto questo si può superare. Se si fanno dei ghetti e non si impara a stare con l’altro, sarà difficile. Faccio un esempio: nella mia parrocchia predico sia in congolese sia in italiano, essendo presenti anche degli italiani. Così mostro loro che non sono esclusi dalla nostra preghiera comune. Ci si accetta, si fa un’esperienza insieme, così poi nascono anche le amicizie. E gli italiani apprezzano la nostra cultura. Quello che fino ad allora appariva incomprensibile, diventa comprensibile, perché ci si è aperti e ci si è preoccupati di far vedere ciò che noi siamo. Ci sono dunque mezzi e possibilità per conoscersi, in atteggiamento di semplicità e aperturanl’idea più diffusa è che lo straniero viene a “fregare” il lavoro, dimenticando che spesso fa lavori che gli italiani non vogliono più fare. L’immigrazione è sentita come una vera e propria invasione, un rubare spazio vitale. Ho avuto persino lamentele per aver parcheggiato nella piazza davanti alla mia parrocchia, perché quello era il “loro parcheggio”.
“Il razzismo esiste ovunque – prosegue – e anche in Italia ho potuto constatare che c’è, come c’è la ristrettezza mentale. Un esempio: l’altro giorno alla Standa, ero in fila alla cassa: mentre vado a prendere qualcosa che ho dimenticato, una signora mi passa davanti senza che la cassiera dica niente. Glielo ho fatto notare, lei prima tace, poi mi risponde che questo non è il mio paese. Le ho chiesto che cosa avesse a che vedere il mio paese con questo. Poi si è accorta che non sono ultimo dei arrivati e si è scusata Un altro episodio: vado in una famiglia italiana di amici, e sento dire da una persona: “Questi neri non mi piacciono”. Le faccio notare che anch’io sono nero, e mi dice: “Ma tu sei diverso! Sei bravo!”. Ma questo non mi cambia il colore alla pelle! Un altro esempio: in uno associazione dove presto servizio, quando una persona si rivolge personalmente a me, mi chiama Ndoye Daouda, quando mi indica alle persone dice “Andate dal ragazzo di colore”. Mi definisce, cioè, in base al mio colore, non in rapporto alla nostra fraternità . L’uso di espressioni come “extracomunitario”, “straniero” rivela che almeno nel subcosciente un certo razzismo esiste”.
“Alcuni si lamentano di essere sfruttati al lavoro – spiega commentando il mondo del lavoro – come capita alle ragazze che abitano con anziani o malati: talvolta, sono costrette, effettivamente, con scuse, a lavorare anche durante il loro giorno libero o la domenica. Spesso poi, agli stranieri vengono chiesti affitti più alti che a un italiano: da 700 si passa a 800 euro al mese. Tutto questo è frustrante. Un altro esempio: se un vigile vede uno straniero, sicuramente lo ferma, anche se non ha commesso un’infrazione, per controllargli i documenti. Perché usare due pesi e due misure? Così anche al lavoro: per le stesse competenze, un italiano riceve di più e uno straniero di meno. Questo rivela una serie di pregiudizi. Pensiamo soltanto alla trafila burocratica e alla spesa per avere un permesso di soggiorno, nonostante tutti i provvedimenti usciti. Conosco tanti in attesa di avere ancora i documenti. Poi, come dicevo, non ci sono associazioni che aiutino in questo senso né si vede chi possa finanziarle. Bisogna cercare sempre di andare verso l’altro, volendolo accogliere. Solo così si potranno superare molti degli attuali problemi. L’altro non viene qui per minacciarmi. È anche una possibilità per me. Non è un nemico, ma può diventare mio amico. Inoltre, se veramente crediamo nella libertà, bisogna poter andare là dove ci si trova meglio. Se un paese accetta la presenza degli stranieri, bisogna che dia loro la possibilità di vivere secondo le sue leggi e che essi possano dare il loro meglio, perché siamo tutti noi a costruire la comunità e l’umanità. Se lasciamo che ognuno sia uomo e porti il suo meglio, questo darà all’umanità un altro colore: di allegria, di bellezza, di tutti i valori positivi. Questo vale anche nella chiesa: che non succeda che qualcuno venga considerato uno straniero”.

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