Offendere qualcuno sui social network è diffamazione anche se non ci sono i nomi

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La Corte di Cassazione con la sentenza numero 16172 del 16 aprile scorso ha affermato che il reato di  diffamazione, anche a mezzo internet, è integrato quando il soggetto la cui reputazione è lesa può essere identificato da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla specifica indicazione del suo nome e cognome. Nel caso oggetto della sentenza della Corte, un Maresciallo della Guardia di Finanza aveva pubblicato sulla sua bacheca Facebook la seguente frase: “…attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di collega sommamente raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto…per vendetta appena ho due minuti gli trombo la moglie”, offendendo così la reputazione ed il decoro del collega che era stato nominato quale suo sostituto. 

Il Tribunale Militare di Roma lo riconosceva colpevole del reato di diffamazione, mentre la Corte Militare di Appello pronunciava sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto.
In particolare il Giudice di Seconde Cure affermava che la frase pubblicata sulla bacheca dall’imputato rendeva possibile l’identificazione della persona offesa soltanto ad un ristretta cerchia di persone rispetto alla generalità degli utenti del social network, poichè non ne riportava nè il nome nè la funzione ed era priva di riscontri temporali. Mancava dunque la prova che l’imputato avesse intenziolamente comunicato con più persone in grado di comprendere chi fosse il destinatario delle espressioni diffamatorie.
Tuttavia, il Procuratore Generale proponeva ricorso in Cassazione, ritenendo che la motivazione della sentenza della Corte Militare d’Appello fosse illogica. Precisava infatti che ciò che rileva per la configurazione del reato di diffamazione è l’uso di frasi offensive a prescindere dalle conseguenze che possono derivarne al destinatario e la relativa pubblicazione su internet che le rende conoscibili a più persone, indipendetemente dal numero di internauti che le ha effettivamente lette.
La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, affermando che il reato di diffamazione risultava integrato poichè l’imputato, pur non avendo indicato il nome della persona offesa, aveva inserito nella frase diffamatoria elementi tali che potevano consentire a più persone, di riconoscerlo. Non solo aveva rivolto le parole “raccomandato” e “leccaculo” al soggetto che avrebbe assunto le sue funzioni, ma aveva collegato tali espressioni all’avvicendamento nella funzione di comando che di lì a poco sarebbe avvenuto. Così facendo, in modo evidente seppure non espresso, aveva lasciato intendere che la persona offesa era subentrata nel ruolo di comando che prima egli rivestiva, solo in forza di tali qualità negative, che poneva in relazione ad un fatto concreto e determinato.
Inoltre, a parere della Suprema Corte, la pubblicazione su facebook rendeva le frasi discriminatorie conoscibili ad un numero indeterminato di persone.  Diventava quindi irrilevante che l’imputato non avesse indicato il nome della persona offesa, la sua funzione ed il riscontro temporale, poichè l’avverbio “attualmente”, la parola “collega” e l’allusione alla “defenestrazione”, la rendevano comunque facilmente individuabile. Risultava quindi palese la consepevolezza e l’intenzione dell’imputato di pronunciare una frase offensiva dell’altrui reputazione, e di fare in modo che la stessa venisse a conoscenza di più persone.
Contate quindi fino a dieci prima di pubblicare sui vostri profili virtuali frasi ed espressioni rivolte a terzi.

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