Storia, curiosità e tradizioni di Porcari raccontate da Giampiero della Nina foto

Inizia oggi il percoso dello Speciale Porcari. Notizie, curiosità, storia dal Comune della Piana e un viaggio fra le principali attività del territorio.
Ecco come ce la racconta lo storico Giampiero Della Nina

Storia e curiosità
Porcari longobarda
“Ai piedi e sopra i primi rialzi di piacevole colle che, a levante della fertile piana lucchese, si eleva, in forma di cono, a 132 metri sul livello del mare, chi va per ferrovia, da Lucca a Firenze, vede davanti alla parte orientale delle Pizzorne, Porcari, villaggio vagamente radunato attorno alla sua bella chiesa, con facciata di marmo e con torre gigantesca, tutta di pietra bianca”.
Così scriveva, in bella calligrafia, il proposto di Porcari, don Guglielmo Nanni, negli anni Cinquanta del secolo scorso. Avrebbe dovuto essere il prologo di un libro mai terminato, ma cominciato molte volte. Don Nanni era un appassionato di storia locale, tanto che riuscì ad attaccare a me e ad altri della mia età, quasi in forma epidemica, questa passione per la storia del nostro paese. Nelle sere d’estate, ci davamo convegno sul piazzale della chiesa parrocchiale e lui ci raccontava di tre nobili fratelli longobardi (Gumberto, Ildiberto e Gumbardo) che lasciarono alla chiesa, “pro remoedio animae”, la loro “curtem ad Porchari”. Ciò risultava da un documento d’archivio datato 30 aprile 780. Quindi Porcari esisteva già prima di allora, ed a comprovare l’esistenza di uno stanziamento di gente longobarda, aggregata in “fare”, ovvero in gruppi compatti ed omogenei di famiglie, resta il toponimo “Farabosco”, località che si trova nella zona nord del paese.
E’ verosimile che quei longobardi giudicassero “strategica” la posizione del territorio porcarese, posto sulla via Francigena (la strada che collegava l’alta Europa con Roma), sull’antica via Cassia e sulle sponde del lago più grande della Toscana (lago di Sesto), che rappresentava la via più facile di comunicazione fra le città di Firenze, Pisa e Lucca. Tanto più che il colle di Porcari, che sovrastava la valle delle Sei Miglia, consentiva un punto di avvistamento notevole e, come tale offriva ottime possibilità difensive in caso di attacco.
I longobardi erano giudicati i più “barbari” fra i popoli, perché meno di tutti erano stati influenzati dalla civiltà romana, da cui erano sempre vissuti lontano, ma fecero presto ad integrarsi con le popolazioni oggetto di conquista, tanto da contribuire tra la fine del VII secolo e la prima metà dell’VIII al risveglio economico, artistico e sociale del regno. Acquisirono il modo di vivere di questi popoli e ne abbracciarono perfino la religione, come dimostra il gesto dei tre fratelli longobardi.

Perché Porcari si chiama così?
Lo storico Silvio Pieri fa derivare il toponimo “Porcari” dal latino “porcus”. Della stessa opinione è Mario Seghieri, uno storico locale, molto preciso e attento, che ha scritto il libro Porcari e i nobili porcaresi, un castello, una consorteria. Mario Seghieri osserva, a sostegno della sua tesi, che questo territorio, che appariva una fitta boscaglia di querce e lecci, si prestava assai bene all’allevamento brado di animali, che poi servivano da serbatoio di carne per la vicina città di Lucca. Quindi, con ogni probabilità, il toponimo risale a molti anni avanti: già, forse, si chiamava così in epoca romana.
Un’altra ipotesi, assai meno accreditata, diceva che Porcari, essendo in riva ad un grande lago, disponeva di un porto intitolato a Carlomagno, il quale invase l’Italia nel 773 per combattere i longobardi. Da qui, Portus Carolis e poi per contrazione Porcari.
La terza teoria è quella meno conosciuta. Alboino scendendo in Italia nella seconda metà del 500, con reparti di Bavari, Bulgari, Gepidi e Sassoni, ed avanzando da nord verso sud conquistando nuovi territori usava premiare coloro che si erano distinti sul campo di battaglia lasciandoli signori di vasti appezzamenti di terreno su luoghi strategici. Il premio che conferiva aveva una duplice valenza: fungeva da riconoscimento e sprone per gli altri soldati a mostrare tutto il loro valore in combattimento; permetteva di costituire comunità amiche alle spalle pronte ad accogliere Alboino ed i suoi, in caso di forzato ritiro.
Questa teoria ritiene che il nostro territorio lo avesse lasciato alle famiglie bulgare al seguito. Il nome “bulgari”, poteva benissimo essere letto “bulgàri” e da qui poi corrotto in Porcari.
Del resto vicino a noi troviamo “Bolgheri”, anche questo toponimo derivante da un insediamento di bulgari.
Don Nanni non prende una posizione sui questo punto tuttavia si sofferma a descrivere l’arma dei Porcaresi che presenta la riproduzione di tre porcellini su un campo rosso e bianco, colori della bandiera lucchese.

Il castello ai tempi dell’arcivescovo Sigerico
Con grande enfasi e un po’ di fantasia, Don Nanni ci parlava di come poteva essere Porcari, intorno al Mille. Lo descriveva formato da un borgo e da un castello posto strategicamente sulla via Francigena, dalla quale si dipartiva la via Lombarda che andava oltre Segromigno (Gromigno). All’altezza di Rughi, la vecchia Cassia puntava, attraverso Montecatini, su Pistoia. Dalla Via Francigena si staccava inoltre la strada che conduceva a Vivinaria (Montecarlo). Io lo immaginavo grande quel borgo, di una novantina di case, dove trovavano collocazione, addirittura, quattro chiese dedicate a S. Angelo, a San Giovanni, a Santa Maria e a San Giusto; e grande anche il castello, all’interno del quale si trovava una cappella dedicata a Sant’Andrea.
Da Porcari, luogo di transito obbligatorio e strategico grazie alla sua posizione, dovettero passare soldatesche di ogni tipo, ma anche papi, re e principi, come Enrico III quando si recò a Roma dove il papa Clemente Il lo incoronò imperatore il giorno di Natale del 1046.
Il flusso dei pellegrini, inermi, dovette assumere delle proporzioni rilevanti intorno al Mille, perché il 31 dicembre del 999 era stata preconizzata la fine del mondo e quindi ognuno si industriava a conquistarsi il paradiso sia con lasciti alla chiesa, sia con queste transumanze nei luoghi sacri. Erano diretti verso sud per recarsi a Roma o in Terra Santa con imbarco dal porto di Otranto; o verso nord, diretti a Santiago di Compostela (passavano da Luni, per immettersi poi sulla via Tolosana).
Molti si fermavano qui perché il castello poteva offrire riparo da bande armate che non si facevano scrupolo di assaltare gli abitanti, di razziare il bestiame, compiendo orrori e prepotenze.
Chi si fermava rendeva la propria testimonianza perché ogni viaggio, a quei tempi, rappresentava sicuramente un’avventura.
In quegli anni, fece sosta a Porcari l’Arcivescovo di Canterbury, Sigerico, esattamente nel 990. Lo testimonia nel diario del suo viaggio di 1600 km. durato 79 giorni. Porcari costituì la sua XXV tappa di ritorno da Roma; proveniva da Ponte a Cappiano (24esima tappa), diretto a Lucca (26esima tappa).
Chi costruì il castello? Non lo sappiamo. Sappiamo soltanto che sorgeva sul colle detto di San Giusto, che era edificato “a petre et a calcina et a rena” come riporta il Seghieri nel suo libro su Porcari. In questo castello, secondo lo storico Barsotti, soggiornò anche Anselmo Da Baggio, vescovo di Lucca che poi fu Papa dal 1061 al 1073 con il nome di Alessandro II.

Matilde di Canossa è nata a Porcari?
Matilde figlia del Marchese Bonificio e della Contessa Beatrice, nacque nel marzo del 1046. Dove? Sono in netta minoranza coloro che sostengono che la Contessa Matilde sia nata a Canossa; i più sono concordi nel ritenere che sia nata a Lucca o nelle immediate vicinanze. Nel libro scritto da Janet Ross e Nelly Erichsen dal titolo The story of Lucca, si legge: “Matilde, destinata a ricoprire un ruolo importantissimo nella storia, molto probabilmente, era nata a Lucca o nel vicino castello di Porcari, che sua madre aveva acquistato qualche anno prima”.

Il castello e Castruccio Castracani
Questo castello costituì un ultimo baluardo in difesa della città di Lucca e fu al centro di importanti battaglie. Basti ricordare la più famosa, quella dell’Altopascio nel 1325, che vide la vittoria di Castruccio Castracani contro le truppe di Ramon de Cardona generale spagnolo agli ordini della repubblica fiorentina.
Quella battaglia in effetti avvenne sul territorio porcarese dopo la capitolazione di Altopascio e sarebbe dovuta passare alla storia come battaglia di Porcari.
Aveva scritto un anonimo pistoiese che forse assistette a quella battaglia, a proposito delle caratteristiche del castello di Porcari: “Era sì forte che per battaglia nol poteano avere.”
Il castello faceva parte di quella rete di fortezze, tutte comunicanti con la Torre che si trovava a Lucca, intese a trasmettere e ricevere messaggi. Si dice che il messaggio che partiva dalla torre di Lucca poteva raggiungere Castiglione Garfagnana in cinque minuti. La Fondazione Antica Zecca di Lucca ha coniato recentemente una medaglia che riporta la dislocazione di questo sistema di trasmissione.
Troviamo tracce del castello di Porcari fino al secolo XVII. Oggi rimane qualche brandello di muro in alto sulla collina.

San Giusto: patrono di Porcari
San Giusto, patrono di Porcari, visse nel VI secolo, al tempo di San Frediano. Risulta che di ritorno dall’Africa, Giusto con altri sacerdoti, a causa di una tempesta, fu costretto a sbarcare, nei pressi di Populonia. La leggenda racconta che successivamente si diresse a Volterra, assediata dai Vandali e fu qui che Giusto, riuscì a liberare la popolazione dall’assedio. Lo fece, gettando agli assedianti del pane, dalle torri di protezione. I Vandali si convinsero che la popolazione, avendo tanta abbondanza di cibo, da gettarlo sugli assedianti, avrebbe potuto resistere all’infinito e quindi ritennero bene di abbandonare la stretta. Altri, dicono che San Giusto gettò il pane per un gesto di carità cristiana, affinché fosse condiviso da tutti e quindi il pane diventò il mezzo per concludere la pace. Giusto, proclamato vescovo di Volterra, si dice che fosse un grandissimo predicatore, capace di richiamare moltitudini. Questo è il santo patrono di Porcari, al quale, già nel secolo decimo fu dedicata la chiesa principale che oggi si trova in posizione privilegiata, a metà di quel colle, la Torretta, emblema del paese. La gente di Porcari la volle che somigliasse alla cattedrale di San Martino di Lucca ed infatti l’interno la ricorda molto, con le tante decorazioni e pregevolissime pitture di Michele Marcucci. Nella lunetta dell’altar maggiore il pittore rappresentando le virtù teologali, con i colori bianco rosso e verde, da buon patriota, intese rendere omaggio alla bandiera italiana. Tradizione vuole che la mattina in cui si celebra la festa del santo patrono, tutti i preti nativi di Porcari, e sono molti, alle 10, si trovino nella chiesa dedicata al santo per officiare insieme la messa. La sera, dopo altra messa solenne esce la processione con il santo per le vie del paese. Una curiosità a proposito di questo santo: nel lucchese le partorienti lo imploravano affinché il bambino non creasse difficoltà nel nascere e così si consigliava: “Un Paternostro a San Giusto: prima la testa e poi il busto!”

Il passaggio dall’economia agricola a quella industriale
C’è ancora chi ricorda il tristissimo periodo del dopo-guerra: tutto era distrutto, tutto doveva essere ricostruito, ma non c’erano soldi per farlo.
Partono in molti dalla nostra provincia, per cercare lavoro oltremare, visto che i paesi europei, stremati dalla guerra, potevano offrire ben poco. Partono alla ricerca di una vita migliore, anche se Lucca poteva considerarsi fortunata per la presenza di fabbriche importanti come la Manifattura tabacchi e la Cucirini Cantoni Coats ed altre minori che assicuravano il lavoro ad oltre 10mila dipendenti.
Nonostante le innumerevoli difficoltà, a Porcari, a partire dal 1947, si poté notare una prima, timida ripresa, grazie soprattutto alla intraprendenza, alla parsimonia, alla laboriosità di questa gente. Dal censimento del 1951 risulta che a Porcari, su una popolazione complessiva di 5403 persone, quella attiva ascendeva a 2190 unità dedita in massima parte all’agricoltura (980 persone), e poi all’industria ed artigianato (846) e ad altre attività minori (364). A Porcari si allevavano in particolare vitelli e vacche da latte, che, complessivamente al censimento 1951 risultarono essere ben 1.440 capi. La lavorazione del latte, dalla quale residuavano enormi quantità di siero, indusse molti agricoltori ad estendere la loro attività all’allevamento dei maiali.
Questa era la situazione di Porcari nell’anno in cui fu nominato sindaco Vincenzo Da Massa Carrara, un giovane, ex allievo Cavanis, appena laureato in economia e commercio, il quale in un primo tempo, realizzò quelle opere infrastrutturali, necessarie al futuro sviluppo del paese, estendendo la rete elettrica alle zone periferiche, dotando l’intero territorio di acqua potabile, asfaltando le strade. Inoltre furono portati a termine gli edifici scolastici di Rughi e Padule e sempre usufruendo dei finanziamenti statali, furono realizzati nuovi alloggi popolari. Nel suo secondo mandato il giovane sindaco, seppe approfittare della legge 635/1957 che incoraggiava il sorgere di iniziative imprenditoriali nelle zone del Paese particolarmente disagiate, esonerandole temporaneamente dal pagamento delle imposte. Concentrò i suoi sforzi, in primo luogo nel far includere il Comune di Porcari fra le zone beneficiarie di queste provvidenze e, in secondo luogo, nel richiamare l’attenzione di tutti gli imprenditori italiani sulle opportunità che le legge offriva ed i vantaggi che avrebbero ottenuto impiantando a Porcari la loro attività. Il paese era attraversato dalla Firenze-Mare, collegata all’autostrada del Sole; era servito da ferrovia, offriva terreni a basso costo e manodopera in abbondanza. Il messaggio fu bene recepito dall’imprenditoria e in pochi anni, Porcari cambiò decisamente il suo aspetto e da paese prevalentemente dedito all’agricoltura divenne il più importante centro industriale della provincia di Lucca che offriva lavoro non soltanto ai residenti ma a tantissimi lavoratori dei comuni limitrofi, tanto che negli anni Ottanta i pendolari con il loro numero, raddoppiavano la popolazione residente. Molti furono anche i lavoratori provenienti dal sud, specialmente dalla Sicilia che grazie alla possibilità di impiego si stabilirono definitivamente a Porcari, integrandosi perfettamente con la popolazione locale. Già nel 1986 gli addetti all’industria e alle altre attività (2693), sopravanzavano di gran lunga gli addetti all’agricoltura, ridotti a 173 unità, ma al censimento del 2001, ben 5885 erano le persone impiegate in attività diverse dall’agricoltura. Da allora le cose non hanno subito mutamenti di rilievo, salvo la presa di coscienza da parte della popolazione, di volere accanto alle fabbriche che assicurano il benessere materiale per tutti, tanti spazi verdi, tante opportunità da riempire il tempo libero con attività che permettano un’altrettanta rilevante crescita spirituale.
All’ultima rilevazione, risulta che il cittadino porcarese ha un reddito che si attesta sopra la media nazionale e che il reddito pro-capite, nel 2015 ha fatto registrare un incremento del 7,25% rispetto all’anno precedente; aumento che nessun altro comune della nostra provincia ha potuto vantare. Addirittura, dal 2008 ad oggi, nonostante il periodo di congiuntura fortemente negativa, la base occupazionale è cresciuta, segno di una economia forte, basata principalmente sull’industria cartaria, e di un impegno imprenditoriale di prim’ordine.

Porcari: la faticosa conquista dell’autonomia
Porcari, come Ente-Comune compirà 104 anni nel prossimo mese. Porta infatti la data del 22 giugno 1913 il regio decreto numero 662 con il quale “Vittorio Emanuele III, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, Re d’Italia”, stabiliva il distacco della frazione di Porcari dal Comune di Capannori (che aveva sede in piazza del Suffragio a Lucca), elevandolo a Comune autonomo.
L’attesa era durata oltre 25 anni, ma finalmente la gente di Porcari, che costituiva la frazione più popolosa del Comune di Capannori, aveva raggiunto il proprio obiettivo, sempre lottando, mai arrendendosi, anche quando tutto sembrava ormai perduto. Era stata respinta una prima domanda di separazione presentata nel 1890, con la motivazione che Badia Pozzeveri (allora frazione di Capannori), sarebbe venuta a trovarsi come tagliata fuori dal resto del Comune e costretta, per raggiungere la sede comunale, a passare attraverso il territorio del nuovo Comune che andava a costituirsi. Nella successiva domanda, presentata nel 1903, a questo proposito si faceva presente che tale motivazione era del tutto pretestuosa perché Badia Pozzeveri, attraverso la maggioranza dei suoi elettori aveva già espresso la volontà di unirsi a Porcari, non appena costituito il nuovo Comune.
Nel frattempo anche Capannori-centro, unitamente alle frazioni di Paganico e Tassignano, sull’esempio di Porcari, presentò domanda per costituirsi in comune autonomo, distaccandosi così da tutte le altre frazioni, adducendo, fra le altre motivazioni, la più rilevante e cioè che non poteva ammettersi che la sede di un Comune, insistesse sul territorio di altro Comune. Queste domande che tendevano a smembrare il Comune rurale più grande d’Italia, furono respinte, sia dal consiglio comunale nella seduta del 19 settembre 1904, sia dal consiglio provinciale, in quella del 9 luglio 1906.
Più che delusi da questa votazione, i Porcaresi ne furono amareggiati perché sapevano che la loro domanda veniva respinta, non per motivi di legittimità, di ragionevolezza, o per convenienza anche economica di una comunità, o per l’ideale di unità territoriale, ma semplicemente per l’egoismo di pochi. Una nuova speranza però, venne a prospettarsi poco dopo aver presentato la seconda istanza di autonomia, con le elezioni politiche del novembre 1904. Gli elettori delle frazioni di Porcari, Capannori, Tassignano e Paganico appoggiarono con tutto il loro peso elettorale e tutto l’entusiasmo possibile la candidatura dell’industriale Francesco Croce, originario di Genova, ma proprietario della fabbrica del Piaggione, con il quale erano corse preventive intese che, una volta eletto alla Camera dei Deputati, avrebbe portato avanti la causa delle frazioni capannoresi che aspiravano all’autonomia.
Dopo l’elezione, in effetti, qualcosa si smosse a Roma: Giolitti, presidente del Consiglio, inviò a Porcari l’ispettore Bellini per avere un quadro della situazione, prima di affrontare in parlamento la questione dell’autonomia. L’ispettore venne ricevuto alla stazione di Porcari il 15 novembre 1906 da un migliaio di persone capeggiate dall’avvocato Felice Orsi, anima del movimento, il quale accompagnò l’alto funzionario statale al Palazzo Stringari (attuale palazzo comunale), dove, “a nome di Porcari e del partito separatista mandò un saluto al governo per il suo interessamento alla causa…”. Il successivo discorso dell’ispettore Bellini fu interpretato dai Porcaresi come una promessa di autonomia.
Si rimarcava anche il fatto che il Comune non era più in condizioni di funzionare: Porcari da anni non nominava i 4 consiglieri di cui aveva diritto; il consigliere di Badia Pozzeveri era deceduto e i due consiglieri di Capannori avevano rassegnato le proprie dimissioni. Così, a regime restavano 33 consiglieri, dei quali soltanto 18 partecipavano alle riunioni. Non soltanto: anche le frazioni di Lammari e Compito, stavano rivendicando la loro autonomia, quasi a sottolineare il malcontento. Sembrava cosa fatta!
Il 1° maggio successivo, il progetto “inteso alla divisione del Comune di Capannori in quattro comuni autonomi”, viene ammesso alla lettura della Camera. E’ l’onorevole Croce ad esporre il progetto.
I fatti di Roma suscitarono così tanto entusiasmo che a Porcari e Capannori suonarono le campane. Datato 3-4 maggio 1907 esce, per dar man forte all’Esare, giornale conservatore, e per arginare l’ondata separatista, il primo numero del periodico L’Unione, il cui direttore è il conte Raffaello Sardi. Costui deride il festoso concerto campanaro di Porcari e Capannori, eseguito soltanto perché la Camera dei Deputati ha preso in esame la proposta del Croce, senza conoscere che “…la presa in considerazione non si nega mai, neppure al più strampalato progettucolo di legge”. Infatti, la questione della separazione sembrava essersi arenata a Roma. Verrà ordinato un supplemento d’indagine da parte della Commissione parlamentare, con la nomina di una sottocommissione, che avrebbe dovuto “studiare sul posto il territorio del comune da squartare”, per la gioia degli Unionisti i quali affissero sui muri di Lucca manifesti che partecipavano la morte del progetto Croce.
Volarono scambi di accuse fra i giornalisti delle opposte fazioni, tanto che il conte Raffaello Sardi ritenendo un articolo de La Campagna, particolarmente offensivo per la sua persona inviò a quella redazione, i suoi padrini. Felice Orsi, ispiratore e direttore di quel giornale era fuori Lucca, ma il lunedì successivo, 3 giugno si presentò ai padrini per confermare che l’articolo era suo, firmato con lo pseudonimo di Ursus, che se ne assumeva l’intera responsabilità e non intendeva rettificare neppure una virgola di quanto scritto.
Si aprì così una vertenza cavalleresca, sedata da una commissione che chiuse la vertenza, “riconoscendo essi sottoscritti che in detti articoli la polemica amministrativa ha progressivamente ecceduto in vivacità nella forma”, ma niente di più.
Il nuovo sopralluogo della sottocommissione parlamentare romana avvenne nel gennaio successivo. I tre componenti arrivarono alla stazione di Lucca in ordine sparso, sabato 25 gennaio. Ad attenderli c’erano moltissime persone fra le quali l’onorevole Croce per i Separatisti e l’onorevole Matteucci per gli Unionisti. Si stabilirono all’hotel l’Universo e all’indomani partirono in auto per un giro ricognitivo del Comune, seguendo il percorso Marlia, Lammari, Segromigno, Porcari, Badia Pozzeveri, Capannori, Lunata.
Porcari “…imbandierato a festa, al suono delle campane a stormo erasi riversato sulla via… La banda intona l’inno separatista, gli uomini acclamano tenendo i cappelli in mano, le donne agitando i variopinti fazzoletti ed un grido, un grido tremendo si leva: Evviva la separazione – Evviva il Comune di Porcari – Evviva la Commissione. Passavano i mesi, e Roma, pur sollecitata sia dal prefetto, sia dal comitato separatista di Porcari, sembrava giocare a scaricabarili. Si arriva così al 19 luglio 1908 quando ci furono le elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale; nessuno dei Separatisti di Porcari e Capannori si presentò a votare e così i seggi non si poterono formare, alimentando confusione ed incertezza.
Trascorsero in attesa del responso governativo, novembre, dicembre e gennaio. L’otto febbraio 1909 la camera si sciolse e così finì la 22esima legislatura con un nulla di fatto. Punto e a capo.
La responsabilità che la commissione parlamentare non avesse predisposto gli atti per la votazione del parlamento fu attribuita all’inerzia dell’onorevole Francesco Croce. Il sospetto che il deputato macchinasse qualcosa di losco contro la causa separatista, divenne certezza quando passò nelle file degli Unionisti, che, sembra, lo accettassero dopo avergli fatto firmare un documento con il quale si impegnava a opporsi a qualsiasi frazionamento del Comune; opporsi a qualsiasi trasporto di sede.
Il voltafaccia di Francesco Croce, il quale non osò più presentarsi a Porcari, fu determinato dall’ambizione di essere rieletto al parlamento italiano. Per avere questa certezza, era necessario aggregarsi alla parte più forte della competizione elettorale; ed era quella Unionista, sostenuta dalla chiesa (con l’arcivescovo Benedetto Lorenzelli), dalla finanza con il banchiere Lorenzo Martinelli (detto il Trippa), dall’economia (con l’industriale Giovanni Niemack, detto il tedesco), dalla Croce Verde lucchese, dall’aristocrazia (rappresentata da tutti quei nobili che avevano interessi nella campagna), e dai giornali L’Eco della Provincia e, ovviamente dall’Esare.
Questo voltafaccia fu considerato, a ragione, un tradimento e da quel momento in avanti Croce fu, per tutti, il “deputato dell’equivoco”. Dopo questa ennesima delusione, anche La Campagna, il giornale che sosteneva le ragioni separatiste, dovette chiudere i battenti. Lo fece scrivendo che la lotta per la separazione sarebbe continuata, con caparbietà, con maggiore determinazione, fino ad ottenere il risultato per cui si combatteva da anni. Era lungimirante. Seguirà una nuova domanda di autonomia presentata dai Porcaresi nel 1909 e finalmente quattro anni più tardi, la sola frazione di Porcari otterrà il distacco dal Comune di Capannori.

Tradizioni e curiosità
A Porcari ci si fidanzava senza profferir parola. Per i giovani di oggi non è certo una novità quella di frequentare una ragazza o “fidanzarsi”, senza prima interpellare i genitori di lei. Un tempo, e neanche tantissimi anni fa, era obbligatorio fare la così detta “parte in casa”, cioè chiedere il permesso ai genitori di lei di frequentare la casa con lo scopo finale di convolare a giuste nozze con la loro figlia. Era questo un passo importante che poteva mettere in crisi il giovane aspirante fidanzato o meglio, “damo”, come si diceva nel lucchese. Proprio ad evitargli l’imbarazzo di trovare le parole adeguate per dichiararsi, si usava semplificargli la vita, con il cerimoniale del “sasso”.
Il giovane entrava in casa dell’innamorata, portandosi un sasso in tasca e, al momento opportuno, dopo i soliti convenevoli, ed un bicchiere di vino, lo poneva sul tavolo davanti a colui che sperava diventasse suo suocero. Nella stanza non c’era nessuno, perché certe cose potevano essere risolte soltanto tra uomini. Se il padre, prendendosela comoda perché non si arrivava al dunque, senza prima accennare ai raccolti, ai lavori dei campi, al tempo inclemente, alle bestie della stalla e alle prediche del prete, ritirava il sasso posto sul tavolo, mettendoselo in tasca, ciò voleva dire che la cosa era fatta e lui era il benvenuto in famiglia. Se al contrario, il padre, non lo raccoglieva, significava che la famiglia non era d’accordo con la proposta e l’aspirante damo, doveva mettersi il cuore in pace e ritirarsi in buon ordine.
Addirittura in Garfagnana, tutta l’iniziativa veniva presa dal genitore, esonerando il giovane da qualsiasi pur minima esibizione mimica. Qui si usava la fascina. Se il padre di lei, quella sera, ricevendo l’ospite, buttava nel fuoco una fascina intera, ancora legata, significava che il giovane non era gradito.
Dal momento dell’accettazione, il pretendente diventava ufficialmente “damo” e come tale era autorizzato a frequentare la famiglia ed intrattenersi con la ragazza. Non tutte le sere però, poteva frequentarla, ma soltanto nei giorni di martedì, giovedì, sabato e domenica. Questa non era una regola scritta, per cui in alcuni paesi della lucchesia, si sconsigliava di “andare a dama” nei giorni che contenevano la ‘erre’: martedì, mercoledì, venerdì; in altri, della Val di Serchio, si diceva che la serata ideale era il sabato, perché “di lunedì vanno i furiosi/martedì i morosi/mercole i questuanti/giovedì gli amanti/venerdì gli stregoni/e soltanto il sabato, i dami buoni“.
Nelle sere prescritte, il damo dunque si presentava in casa e poteva accomodarsi su una sedia accanto alla sua ragazza che, in ogni caso, continuava a lavorare: faceva la maglia, o ricamava il corredo iniziato da anni, o scuoteva una bottiglia per fare il burro (nelle case di contadini che possedevano la mucca), o sgranava i fagioli, o era intenta ad altre piccole faccende che poteva sbrigare da seduta per non staccarsi troppo dall’uomo con il quale avrebbe dovuto spartire la vita. I baci erano severamente vietati, ma veniva consentito ai dami di parlare fra loro a voce bassa: conversazione non censurabile dalla madre che, a pochi passi, non poteva staccare gli occhi da quei due. Rientrava fra i suoi compiti, quello di «far lume» e quando proprio non poteva lei, toccava a qualcun altro di casa, perché “…du’ ragassacci riscaldati/è sempre ben tienilli sorvegliati/dalla punta der piédi alla manina…” come consigliava Custer De Nobili, il  massimo poeta dialettale lucchese.
In ogni caso il compito di ‘far lume’ era delicato e difficile per tutti. Ecco come Gianbattista Santini, testimonia le lamentazioni di una madre garfagnina che raccontava quando e perché sua figlia rimase incinta: “Fu di certo una sera che gnevava…/E io, che stevo sempre a orecchi dritti,/quaa sera evo sonno, e m’addormitti…

Giampiero Della Nina

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