Gli strumenti normativi per reagire alla violenza domestica

Gli strumenti normativi per reagire alla violenza domestica
I dati contenuti nel rapporto Eures – Ansa Il femminicidio in Italia nell’ultimo decennio. Dimensioni, caratteristiche e profili di rischio riportano che nel Nostro Paese tra il 2000 ed il 2011 sono state uccise 2.061 donne e che il 70,8% di tali omicidi è avvenuto in ambiente familiare.  Le donne uccise nel 2012 sono state 124 ed oltre 30 sono quelle uccise dall’inizio dell’anno corrente. In Toscana, i dati raccolti per l’anno 2012 dal coordinamento dei centri antiviolenza Tosca riportano che sono state 2.300 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza, di cui 1.831 lo hanno fatto per la prima volta e 469 lo avevano già fatto in passato.
Questi dati, facilmente reperibili su internet e sulla stampa quotidiana, non possono che allarmare la comunità ed indurre una riflessione generale sulle strategie da adottare per arginare quella che è ormai una vera e propria emergenza. Va da sè che tali strategie dovranno essere di ampia portata ed impegnare a più livelli il legistratore e le istituzioni, tuttavia può essere opportuno analizzare gli strumenti di tutela, ad oggi esistenti, che possono essere utilizzati dalle persone che subiscono violenza. Questo perchè il dibattito nazionale, molto attento alla questione in questi ultimi tempi, è spesso incentrato sui vari fatti di cronaca e non presta attenzione sugli strumenti di tutela che invece già ci sono.
Non è infatti un caso che, sempre secondo il rapporto Eures – Ansa, circa 47,2% degli omicidi di donne avviene nei primi tre mesi dalla separazione: separazione che deve essere intesa non tanto come inizio del procedimento legale, quanto come manifestazione da parte della donna della volontà di terminare la relazione sentimentale.
L’iter della separazione giudiziale è spesso lungo e complesso e a volte, nell’immediatezza della situazione, non offre alle persone in difficoltà la tutela opportuna. Infatti l’adozione da parte del tribunale dei provvedimenti provvisori ed urgenti che regolano la vita familiare – ovvero quelli con cui il presidente autorizza i coniugi a vivere separati, dispone l’affidamento e la domiciliazione della prole, assegna la casa coniugale e disciplina il mantenimento dei coniugi e dei figli – avviene soltanto in seguito alla prima udienza del procedimento e quindi tra il deposito del ricorso in tribunale e tale momento possono intercorrere anche vari mesi.

Pertanto, proprio per affrontare situazioni di pericolo concreto ed imminente, il legislatore con la legge n. 154/2001, ha introdotto gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, disciplinati agli articoli 342 bis e 342 ter del Codice Civile. La prima norma prevede che il Giudice Civile, su istanza di parte, quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, può adottare con decreto uno o più dei provvedimenti di cui all’articolo 342 ter. Il magistrato può quindi ordinare a colui che ha tenuto la condotta pregiudizievole l’immediata cessazione della stessa, disporne l’allontanamento dall’abitazione familiare e prescrivergli, ove occorra, di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dal familiare che ha subito il pregiudizio, come ad esempio la casa della famiglia di origine, il luogo di lavoro e  la scuola frequentata dai figli della coppia. Oltre a ciò, il magistrato può imporre a carico del coniuge/convivente che viene allontanato dalla casa familiare, l’obbligo di corrispondere un assegno di mantenimento alle persone conviventi, che per effetto dell’allontanamento restano prive di mezzi adeguati. Può disporre, altresì, l’intervento dei servizi sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché delle associazioni che abbiano come fine statutario il sostegno e l’accoglienza di donne e minori o di altri soggetti vittime di abusi e maltrattati.
Questi provvedimenti possono essere concessi inaudita altera parte, ovvero possono essere disposti dal tribunale, laddove sussistono i presupposti di necessità ed urgenza, anche in esito al solo deposito del ricorso da parte del soggetto che subisce il pregiudizio. In questi casi vengono eseguiti con la collaborazione delle forze di Pubblica Sicurezza, ma devono poi essere confermati in udienza, in modo da garantire la formazione del contraddittorio ed il diritto di difesa del soggetto che viene allontanato. Queste misure hanno, in ogni caso, una durata limitata nel tempo, che il giudice deve indicare nel provvedimento con cui li dispone. Possono durare sino ad un anno e possono essere  prorogate soltanto ove ricorrano gravi motivi e soltanto per il tempo strettamente necessario. Circostanza rilevante è che questi provvedimenti possono essere adottati sia in caso di convivenza, che in caso di matrimonio e possono essere richiesti anche da ciascun componente della famiglia, nei confronti di un altro convivente molesto.
Tuttavia, nonostante la portata innovativa e la vasta gamma di situazioni cui è applicabile, questo strumento non risulta essere molto utilizzato dagli operatori del diritto.
Altri strumenti di tutela che hanno invece ottenuto una maggiore applicazione, sono quelli introdotti dalla cosidetta legge contro lo stalking, approvata con il decreto legge n. 11 del 23 febbraio 2009. Il termine stalking deriva dal verbo inglese to stalk, che significa braccare e viene utilizzato nell’ambito della caccia, lo stalker è infatti il cacciatore in agguato oppure colui che avanza futivamente.
Capita spesso infatti che, durante una relazione sentimentale, in ambito familiare oppure alla fine di un matrimonio o di una convivenza, una persona adotti nei confronti dell’altra comportamenti molesti e ripetuti, costituiti da pedinamenti, dal danneggiamento di oggetti, da appostamenti presso l’abitazione o presso il luogo di lavoro, dall’invio di numerosi ed indesiderati messaggi sms ed email, nonchè dalla ricerca di un contatto personale attraverso telefonate. Molti casi di cronaca hanno dimostrato come, purtroppo molte volte, queste condotte celino situazioni di violenza pregressa e come, in alcune occasioni, possano portare addirittura all’omicidio della persona che li subisce.
Queste condotte, prima dell’approvazione della legge sullo stalking erano perseguite e punite in base a diversi reati, che però per limiti di pena non consentivano l’adozione nei confronti dell’indagato delle misure cautelari. Ovvero di quelle misure che il giudice penale può adottare nel corso delle indagini o durante il processo, per limitare la libertà personale.
La legge sullo stalking ha introdotto quindi nel codice penale l’articolo 612 bis, rubricato atti persecutori, che letteralmente prevede: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. La pena è poi aumentata se il fatto è commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato, o da persona che è stata legata da una relazione affettiva con la vittima, oppure se il fatto è stato commesso nei confronti di un minore, di una donna in stato di gravidanza, di una persona disabile, oppure a mezzo di armi.
Il reato è comunque perseguito a querela della persona offesa, ma i termini per proporla sono di sei mesi, anzichè di 90 giorni. Prima che sia proposta la querela, la persona offesa, ovvero quella che ha subito le condotte reiterate, può esporre i fatti all’autorità di pubblica sicurezza avanzando richiesta al questore di ammonimento nei confronti dell’autore della condotta. Il Questore, assunte se necessario informazioni dagli organi investigativi e sentite le persone informate dei fatti, ove ritenga fondata l’istanza, ammonisce oralmente il soggetto nei cui confronti è stato richiesto il provvedimento, invitandolo a tenere una condotta conforme alla legge e redigendo processo verbale. Copia del processo verbale è rilasciata al richiedente l’ammonimento e al soggetto ammonito e, se questi continua a molestare la persona offesa, il reato di stalking diventa perseguibile d’ufficio.
Il Giudice penale, come anticipato, può poi adottare due misure cautelari, disciplinate agli articoli 282 ter e 282 quater del Codice di Procedura Penale. Egli, in sostanza, con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento può prescrivere all’imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati, abitualmente frequentati dalla persona offesa, ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona offesa. Se sussistono ulteriori esigenze di tutela può prescrivere di non avvicinarsi anche ai luoghi abitualmente frequentati da prossimi congiunti della persona offesa o da persone con questa conviventi o comunque legate da relazione affettiva. Può altresì predisporre un divieto di comunicazioni. Queste misure, quando adottate, vengono trasmesse alle autorità di pubblica sicurezza competente in materia di armi, affinchè adottino i provvedimenti opportuni, nonchè alla parte offesa ed ai servizi socio-assistenziali del territorio.
La prassi di questi anni, ha dimostrato l’efficacia della nuova fattispecie penale, anche se alcuni sostengono che si potrebbe fare di più. In alcuni casi succede che le condotte moleste cessino all’esito della descritta procedura di ammonimento, che ha natura amministrativa e non giudiziale. Come detto infatti si svolge davanti alla Questura, ma ha le solite garanzie del contraddittorio, dato che il presunto stalker può partecipare depositando memorie difensive. E, in varie occasioni, il provvedimento di ammonimento – che comunque dovrà essere corredato da una motivazione, che dimostri che è stata condotta un’istruttoria adeguata ed imparziale e che potrà essere impugnato in sede amministrativa – è stato sufficiente a far cessare la condotta delittuosa, senza ricorrere al giudice penale.

La rubrica è curata dall’avvocato Elisa Salvoni del Foro di Lucca

 

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