Dalle bische alle guerre dei clan, Musumeci: “Ora sono cambiato”

8 marzo 2020 | 11:11
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Dalle bische alle guerre dei clan, Musumeci: “Ora sono cambiato”

L’uomo considerato il “boss” della Versilia: “Il carcere in Italia fa male alla società, io mi sono salvato grazie ai libri”

Carmelo Musumeci nasce in provincia di Catania, ad Aci Sant’Antonio, nel 1955. Attualmente vive in provincia di Perugia, ma negli anni Ottanta e Novanta il suo nome era famoso in tutta la costa della Toscana, ed era soprannominato “il boss della Versilia”.

Oggi Carmelo Musumeci sta finendo di scontare il suo passato. Arrestato nel 1991 con l’accusa di essere il capo indiscusso della malavita della costa tirrenica, viene condannato all’ergastolo ostativo e di conseguenza al 41 bis come molti boss mafiosi. L’ergastolo ostativo non prevede che il detenuto possa usufruire dei benefici di legge per la scarcerazione dopo i 26 anni di detenzione.

Musumeci in carcere studia dopo esserci arrivato con la sola licenza elementare, si diploma da autodidatta e continua a studiare prendendo tre lauree, in giurisprudenza, in diritto penitenziario e in filosofia. Il tribunale riconosce al boss “l’inesigibilità della collaborazione” e cambia le sue condizioni da ergastolo ostativo a normale ergastolo e dopo 25 anni di prigione può finalmente vedersi riconoscere i benefici di legge per la semilibertà e adesso la libertà condizionale che svolge nella Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi: “Oggi sono una persona diversa rispetto a ciò che sono stato tanti anni fa – dice Musumeci – Mi fa piacere pensare di essere una persona migliore. Ma i conti con il passato non si smettono mai di scontare. Mancano ancora cinque anni e poi il tribunale deciderà se considerare chiuso il mio debito con lo Stato”.

Carmelo Musumeci sospira ripensando agli anni passati in carcere, l’incubo del 41 bis, il periodo di isolamento, i rapporti con gli altri carcerati: “Fui arrestato nel 1991 – ricorda – e fui condannato all’ergastolo. Gli episodi erano frutto di una guerra tra bande che si era scatenata per il predominio del territorio. Ma già dalla tenera età ho sempre avuto problemi con la giustizia. Da quando sono stato messo in collegio molti miei amici che lì ho conosciuto li ho ritrovati nel carcere minorile e poi nel carcere normale. Anche loro avevano avuto il mio stesso percorso di vita, da una struttura detentiva ad un’altra”.

Ma chi era veramente “il boss della Versilia” negli anni Ottanta? Come ha raggiunto i vertici della malavita locale?

C’è un fatto che è diventato il punto di svolta che lo lancia nella scalata della criminalità organizzata. L’omicidio di Maurizio Basile, avvenuto alla Spezia il 19 dicembre 1983, sorpreso in un attentato da un gruppo di fuoco formato da due o tre persone.

Maurizio Basile nei primi anni Ottanta è considerato il capo della malavita della costa spezzina, implicato nel giro del gioco d’azzardo, un settore remunerativo e in netta espansione, che secondo gli inquirenti fornisce un movente perfetto per Carmelo Musumeci, anche lui considerato leader in ascesa delle bische clandestine.

Gli inquirenti sono sicuri di aver imboccato la pista giusta. Carmelo Musumeci e l’amico, Manilo Ferrari sono imputati del delitto e processati. L’iter giudiziario è lungo e travagliato, i due sono condannati in primo grado e appello, ma la Cassazione non ravvede le stesse motivazioni e rimanda in appello e questa volta è assoluzione, confermata nuovamente dalla Cassazione. Musumeci e Ferrari vengono assolti con formula piena:

“Sono stato imputato di quell’omicidio e assolto con formula piena – precisa Musumeci – ma come spesso accade nel mondo criminale questa imputazione è una cosa che mi ha dato ‘prestigio’ e ha fornito una buona spinta per raggiungere i vertici della malavita”.

Nei primi anni Ottanta Musumeci si trova a controllare un vasto territorio lungo la costa tirrenica che si estende da La Spezia fino a tutta la Versilia, Pisa, Livorno e zone interne, come Lucca: “Con i miei amici – spiega Carmelo Musumeci – iniziammo con dei circoli dove si svolgeva l’attività di gioco d’azzardo, un po’ come fa lo Stato adesso. Tra le attività illecite quelle più remunerative erano certamente il contrabbando e la gestione delle bische clandestine. Nel contesto criminale è stata una vera e propria scalata, aprivo un circolo e dopo poco ero costretto ad aprirne uno più grande in un’altra zona. Questi circoli diventavano delle vere e proprie bische dove circolava molto denaro. Ricordo in particolare di una bisca in una villa di Forte dei Marmi che aveva preso un giro molto remunerativo. Furono tre, quattro mesi in cui si creò un ambiente simile a quello che si può trovare in un casinò”.

Nel 1990 però l’attività illecita dell’organizzazione criminale di Musumeci subisce la “concorrenza” del clan Tancredi, sempre operante nel territorio. Non parla volentieri il boss delle motivazioni che hanno portato alla sanguinosa guerra. Forse uno sgarro personale, certo che il fattore economico e l’attività criminale del gioco d’azzardo, per cui era famoso anche Ludovico Tancredi, deve aver svolto un ruolo importante: “Come spesso accade nell’ambiente criminale per il predominio dell’attività illecita si creano delle vere e proprie guerre tra bande rivali, le attività che gestivamo erano bishe, estorsioni, traffico di droga, ma il gioco d’azzardo era il settore in cui si guadagnava di più e quello che ha portato allo scontro con altri clan malavitosi”.

La guerra tra Musumeci e Tancredi prende il via con un attentato ai danni proprio del boss, il 12 febbraio 1990 a Marina di Pietrasanta. Carmelo Musumeci viene raggiunto da 6 colpi di pistola, riesce a fuggire dall’aggressore, ma pochi metri dopo stramazza al suolo. Il sicario non si ferma a controllare di aver concluso il lavoro, ma si allontana velocemente dalla zona. Carmelo Musumeci però, è ancora vivo: “Mi considero un miracolato. Non soltanto nell’occasione dell’attentato a Marina di Pietrasanta, ci sono state tante altre occasioni in cui ho rischiato la vita e ripensandoci adesso, posso dire di esserlo davvero un miracolato”.

La guerra tra il clan Musumeci e Tancredi prosegue. Nel marzo del ’90 tocca a Ludovico Tancredi subire un attentato, ed è facile prevedere da chi è stato organizzato. Riesce a scamparla pure lui per un soffio. Purtroppo però altri non hanno la sua stessa fortuna. A cadere sotto i colpi dei clan sono Italo Allegri, Giuseppe Messina, Paolo Bacci, Roberto Giurlani e Marco Palma, ma è con l’omicidio di Alessio Gozzini, ex portiere della Carrarese e amico di Tancredi, che per Musumeci si aprono le porte del carcere.

Nel 1992 la Cassazione stavolta lo condanna definitivamente all’ergastolo ostativo:  “Sono stato sottoposto al regime del 41 bis e ad un periodo di isolamento – racconta Musumeci – Mi sono accorto che la giustizia nel carcere, in Italia, è ciò che è, perché rispetto ad altri paesi, nel nostro, c’è rabbia. Allora ho pensato di scrivere le mie esperienze su come si arriva a fare delle scelte che ti conducono al carcere. Da qui nasce la mia voglia di scrivere e dedicarmi alla letteratura, ecco io da questo punto di vista mi sento un privilegiato, perché non ho bisogno di inventarmi o di immaginare le emozioni, perché le ho vissute direttamente sulla mia pelle. Ad esempio, non ho bisogno di immaginare i dettagli di un rapina o l’emozione di quando entri in banca: scrivo di un fatto vissuto. Per me lo scrivere del carcere è diventata una specie di missione, ho l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica che una pena cattiva non migliora, ma anzi, in molti casi, peggiora la situazione”.

“Questo è evidente e si ricava dai dati statistici sulla recidività dei carcerati – prosegue il boss – dove negli altri stati del nord Europa si assesta intorno al 20%, da noi raggiunge il 70%”.

Secondo il boss della Versilia non è con una pena esclusivamente punitiva che si può combattere il fenomeno della criminalità organizzata: “Se una pena ti fa male, fa male soprattutto alla società perché il carcerato al momento di uscire diventa peggiore di quando è entrato, il carcere in Italia non è la medicina ma diventa una malattia. Poi non bisogna generalizzare, tutti possiamo cambiare, se sono cambiato io, che non ero esattamente come si suol dire: ‘uno stinco di santo’. Credo fortemente che per cambiare ci vuole la speranza, ma è difficile nutrire speranze quando tu sei considerato anima nera per tutta la vita, cattivo e colpevole per sempre, con una pena che non finisce mai. Ciò che ci fa cambiare è la speranza, io sono cambiato anche grazie all’amore della mia famiglia, dei miei figli, anche dai libri che ho letto, ma soprattutto dalle relazioni sociali. Queste sono importantissime quando sei in un carcere chiuso e stai subendo una pena che ti fa soffrire, assorbono un po’ del male che hai fatto in passato”.

“In carcere – prosegue Musumeci – si crea questo meccanismo: vivendo il male che ricevi ti dimentichi del male che hai fatto in passato alla società, ti crei degli alibi. Cosa è che ti toglie gli alibi? Le relazioni sociali.e le relazioni sociali possono salvarti, ma se vivi anni e anni, 24 ore su 24 chiuso in una cella e alla televisione senti dire di buttare via la chiave e che ci vorrebbe la pena di morte, la speranza muore presto. A quel punto però, penso che queste persone che mi giudicano e si sentono migliori di me, non hanno comunque l’umanità di ammazzarmi. Ed è per questo che certi fenomeni criminali come la mafia, la camorra o la ‘ndrangheta, non si sconfiggono solo militarmente, ma soprattutto culturalmente.

Ma allo Stato interessa veramente sconfiggere questi fenomeni?
“Con una pena che non finisce mai, con un carcere duro, questi fenomeni continueranno a durare e si moltiplicheranno sempre di più, perché i figli dei mafiosi andando a vedere i loro padri in quelle condizioni, con parete divisorie, che non possono toccarli, che non possono abbracciarli, cominciano anche loro ad odiare lo Stato”.

Eppure anche la nostra Costituzione ribadisce il principio rieducativo della pena detentiva…

In sostanza la nostra Costituzione dice che la pena deve esser rieducativa, che deve tendere alla rieducazione, ma in realtà fa tutto il contrario. Sono questi gli argomenti su cui scrivo nei miei libri, come L’angelo senza Dio, in cui parlo di una volontaria in sedia a rotelle, disabile, che mi veniva a trovare nel carcere di Spoleto e io un bel giorno le dissi: ‘Tu mi stai facendo del male, io qua in carcere ci devo vivere e ci dovrei anche morire, non posso permettermi il lusso di diventare buono’. Il carcere è un luogo cattivo e se sai che ci devi morire che senso ha diventare buono?

Dalla sua vita in carcere Carmelo Musumeci trae numerose esperienze, non belle sicuramente, ma che l’hanno cambiato come uomo, facendogli trovare il coraggio di redimersi e di lottare anche per altri ergastolani:

Penso che numerosi ergastolani che sono sono stati arrestati all’età di 19-20 anni, con un po’ di speranza potrebbero cambiare le proprie vite. Mentre invece secondo la mia esperienza infliggere una pena che fa solo male non aiuta, non serve, è inutile e manca anche di umanità.

Gli ultimi due libri di Carmelo Musumeci sono due romanzi, in cui racconta la storia della sua vita, ma tiene a precisare che affrontano l’argomento con uno stile romanzato: “Nato colpevole (è questo il nome del primo libro ndr) parla della mia vita fino ai 18 anni e Diventato colpevole, riprende la storia e racconta di come sono diventato il signore delle bische in Versilia. Più che libri autobiografici li considero dei romanzi, perché romanzando ti puoi prendere il lusso di dire la verità. Nato colpevole racconta la mia infanzia totalmente criminale e deviante, in cui era facile andare in cucina e trovare sul tavolo una pistola vera e non una giocattolo. Descrivo gli anni di collegio, poi quelli del carcere minorile, quando sono stato legato al letto di contenzione nel carcere di Marassi e poi i primi gravi reati”.

“In Diventato colpevole – prosegue Musumeci – continua la storia della mia carriera criminale, è un romanzo in cui descrivo il modo di ragionare che avevo all’ora e le motivazioni che ci sono dietro delle scelte devianti che ho fatto e che hanno fatto le persone intorno a me. E’ chiaro che c’è la descrizione di gravi reati – precisa – ma secondo me è importante far conoscere all’opinione pubblica il modo in cui ragiona un criminale, per capire le scelte che ha fatto per portarlo in carcere. Noi quando commettevamo un reato cercavamo una giustificazione per il nostro comportamento. Faccio un esempio, una volta da ragazzi in una delle prime rapine che commettevamo, avevamo racimolato un bottino di 20 milioni di lire. Il giorno successivo in televisione viene data la notizia di un furto di 30 milioni, a quel punto ci siamo messi a ridere dicendo: ‘Ma chi ci guadagnerà realmente quando facciamo le rapine?’. Questo esempio è importante per capire il contesto – sottolinea Musumeci – quando si conosce solo il male si ragiona in quel contesto e ci tengo a dire la verità su come si ragionava. Non sempre chi commette un reato è una persona cattiva, come non sempre chi ha la fedina penale immacolata e va tutte le domeniche in chiesa, è una persona buona”.

Come per tutti, Musumeci è stato influenzato dalle scelte e dalle esperienze che si sono affrontate in tenera età:

Crescendo in un contesto criminale o comunque deviante, hai poche scelte. Quando sono entrato in collegio ce l’avevo con il mondo, tutti gli altri bambini parlavano italiano, io conoscevo solo il siciliano stretto, mi chiamavano terrone e venivo messo in disparte. Da li ho sviluppato la mia aggressività per farmi rispettare, in un ambiente in cui mi sentivo emarginato. Ci sono tutta una serie di passaggi che uno intraprende per diventare cattivo, non è che una mattina uno si sveglia e decide di diventarlo. È chiaro che ad un certo punto quando la carriera criminale è in ascesa sei tu a scegliere questa vita, perché ti piacciono i soldi, le macchine, le belle donne. Però rimane sempre condizionata dal tuo passato”.

Ma non è per dare una giustificazione ai reati commessi che Musumeci descrive questa situazione: 
“Per carità, in questo modo non voglio giustificare le scelte devianti che ho fatto, perché tanti hanno avuto le mie stesse difficoltà e non hanno mai fatto i delinquenti. Non vorrei essere frainteso, ma un bambino o un ragazzo, certe volte diventa delinquente per un senso di giustizia deviante, perché il bambino non accetta di essere diverso dagli altri e rimangono colpiti dalle esperienze tremende vissute, tanto da portarsele dietro, con gravi conseguenze psicologiche. Certo ad un punto, ho scelto di fare il criminale e purtroppo ci sono riuscito”.

Il lavoro come scrittore di Carmelo Musumeci continuerà anche in futuro, ha degli obiettivi e delle esperienze da diffondere all’opinione pubblica:
 “Ho scritto molto quando ero dietro le sbarre e ho molto materiale ancora da pubblicare, ho tanti inediti e ho l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica, perché si sa poco di come si vive nelle nostre patrie galere. Ci tengo anche a comunicare i motivi per cui uno finisce in carcere.”

Ma l’obiettivo di Musumeci non si riassume soltanto nella sua carriera da scrittore ma è molto ampio e prevede anche l’impiego delle sue competenze giuridiche: “Ammetto di avere un sogno nel cassetto, spero un giorno di diventare un avvocato, quando finirà la libertà condizionale, per aiutare le persone che sono in carcere. È una cosa molto importante per me, dietro le sbarre ho conosciuto numerose uomini, tutti si dichiaravano innocenti. Anche se non è sempre così, esistono numerosi errori giudiziari che sono stati privati della libertà e hanno bisogno di una persona che li difenda. Qualcuno che conosca la sofferenza del carcere duro e che possa aiutarli. Io vorrei essere quella persona”.