
Cognome simile, come simili sono anche le passioni, gli hobbie e un piccolo pezzo di vita che, per caso, hanno scoperto di aver vissuto insieme. Oggi, nel giorno della memoria, due giovani collaboratori di Lucca in Diretta raccontano l’esperienza del viaggio nel campo di Auschwitz-Birkenau con il Treno della Memoria organizzato dalla Regione Toscana a cui entrambi hanno partecipato due anni fa, nell’edizione del 2015.
“Di quell’esperienza tremenda voglio ricordare il gelo che mi penetrava le ossa – scrive David -. Non era il classico gelo, aveva la potenza di trasmetterti qualcosa. Con quel gelo – dice – ho scoperto la sconfitta umana. In quel campo immaginavo bambini, donne e uomini ridotti a scheletri. Nelle ombre delle stanze si nascondevano quelle persone che quel campo non lo lasciarono mai. Ma noi eravamo lì, per conoscere le loro storie, per non dimenticare e stare con loro. Un dolore lancinante mi circondava il cuore, la testa, gli occhi, la bocca. Non credevo, non potevo credere che un uomo della mia stessa età fosse stato in grado di uccidere altri uomini. Non potevo credere che un uomo fosse stato libero di negare la dignità, l’onore, la gioia di vivere ad una persona. Stento ancora a crederci, ma fu così. Di questa esperienza porto ancora i segni indelebili. Non lo dimenticherò mai: eravamo appena scesi dall’autobus – ricorda David – e, invece di fermarmi e fare la solita chiacchierata fra compagni di viaggio, rimasi immobile. Di fronte a me una distesa di casette di legno. Il gelo mi impediva di aprire bocca. All’improvviso immaginai uomini che lavoravano nudi e al gelo. A impartire degli ordini c’era un ufficiale tedesco che, fino a pochi giorni prima, forse giocava nel campo di calcio di casa sua. Ad Auschwitz-Birkenau quel giorno non c’era la neve. C’era però il vento, che con il suo soffio cercava di sussurrarci che uomo aveva conosciuto in quel campo. Questa esperienza oltre a regalarmi sensazioni, riflessioni e storie da ricordare, mi ha cambiato. Mi ha fatto crescere. Mi ha fatto capire con quali occhi si debba guardare il mondo che ci circonda. Non esistono razze o colori di pelle. Non esiste la superiorità. Esiste l’uomo. Esiste l’umanità. E ora più di prima, dobbiamo continuare a trasmettere la memoria di chi oggi non c’è più. Cercheranno di ricostruire barriere, ma noi mentori della memoria, saremo lì a dire No. Viviamo un periodo dove il populismo sta prendendo l’avvento. Dove chi fugge dalle bombe viene accusato di portarci via qualcosa. In Siria, ad Aleppo, abbiamo visto un vero e proprio olocausto. Sono morti bambini, donne e uomini sotto le bombe russe, turche e siriane. Ma a noi cosa importava? Noi viviamo a 3.205 chilometri di distanza, e quindi che interesse c’è? Ecco cos’è successo ai milioni di ebrei morti durante la Shoah. Sono morti nelle stanze del silenzio – scrive David -. Tutti sapevano ma, presi dalla politica, non ritennero doveroso intervenire. Impediamo che niente accada di nuovo. Noi siamo la generazione che Guccini cantava in ‘Dio è morto’, siamo quelli che faranno le rivolte senza armi. Difenderemo i diritti di ogni umano su questa terra. Perché noi – dice David – rimarremo umani”.
“Molti dei ragazzi che hanno fatto con me questo viaggio – scrive Giulia – hanno detto che chi non è mai stato lì non può capire, che il dolore e le sensazioni che si provano a visitare quei campi sono diversi, non è come leggere libri o guardare film. Ma per me è stato diverso. Ciò che mi ha sconvolta veramente – continua Giulia – non è stato trovarmi lì ma scoprire che tutto quello fosse davvero esistito. Sono stata male a leggere certi libri, a guardare film strazianti sull’Olocausto. Ma comunque sia sono sempre rimaste solo immagini, un pensiero che faceva male e poi passava. Una piccola parte di me era sempre stata convinta che quelle cose non potevano essere successe davvero, erano solo racconti, solo dei film. Non ci ho mai creduto fino in fondo, mi sembrava impossibile, non poteva essere tutto vero. Invece poi mi sono ritrovata accanto al filo spinato, davanti a quelle ciocche di capelli ammassate dietro ad una vetrina, davanti alle scarpine dei bambini, sotto i soffitti neri ancora sporchi di cenere. Quelle cose le sapevo già da quando ero solo una bambina, le avevo lette, le avevo viste in foto, al cinema, ma per la prima volta sono stata costretta a dirmi che era tutto vero, all’improvviso non ho avuto più nulla a cui aggrapparmi. Era tutto vero e dovevo arrendermi. Non lo scorderò mai. – scrive Giulia – Cammini, sali le scale di quei palazzi ed è tutto così ordinato, tutto estremamente preciso, tutto mostruosamente perfetto. E l’unica cosa a cui pensi è come sia possibile che delle persone un giorno si siano sedute intorno ad un tavolo ed abbiano deciso di ideare quella fabbrica della morte. E’ stato raccapricciante vedere tutta quella perfezione”.
“I deportati li hanno presi in giro giorno dopo giorno fino alla fine con la faccia sorridente, promettendo loro posti di lavoro in fabbrica, una vita migliore, un abbraccio alla mamma, una doccia calda dopo il lavoro. Tante promesse e sorrisi e poi i bambini sono stati uccisi perché inutili alla forza lavoro, i gemelli e i disabili sono stati usati da cavia, gli uomini sono stati sfruttati nelle fabbriche per 15 ore al giorno con nello stomaco solo una brodaglia avariata, le donne slave più belle sono diventate il passatempo più divertente delle Ss. Come si fa a promettere ad un bambino di fargli incontrare la mamma e poi buttarlo nella doccia, come si fa a dire ad un uomo di lasciare la valigia all’ingresso con su scritto sopra il proprio nome in modo da ritrovarla subito e poi buttarlo nel forno. Prima di ucciderli gli hanno anche riso in faccia. Possibile che l’essere umano sia stato in grado di compiere queste oscenità? A Birkenau c’è un bosco, lo chiamano ‘il bosco delle betulle’. Centinaia di alberi che dividono il campo dai forni perché nessuno così avrebbe potuto sentire, nessuno avrebbe potuto vedere. Ma poi il cielo diventava grigio e allora capirono tutti. Ciò che ho provato a camminare in quel bosco non lo auguro a nessuno”.
Ma oltre a immagini e sensazioni forti sono rimaste nel cuore anche persone, due nomi che si porteranno accanto forse per il resto della vita.
“Conservo ancora nel mio bagagliaio una storia – racconta David – che forse ritengo sia stata una delle poche ad avermi davvero impressionato. Furono le sorelle Bucci a raccontarmi quella storia, forse ora lo staranno facendo con gli altri partecipanti, ma è una storia che merita davvero di non essere dimenticata. Ricordo ancora la voce di Tatina Bucci, il timbro di voce era quello di una persona che fa fatica a dimenticare, o meglio, non vuole. Sergio De Simone, si chiamava così il piccolo cugino delle sorelle Bucci. Fu vittima della follia di Kurt Heissmeyer, noto per i suoi esperimenti medici su cavie umane. Scelsero per lui di farlo diventare il giocattolo di un folle. Per portare Sergio ad Amburgo ci fu una selezione a Birkenau. Gli ufficiali tedeschi, per selezionare i bambini, si divertirono a giocare con i loro sentimenti. Gli chiesero chi voleva rivedere la mamma. Chi desiderava farlo, doveva fare un passo avanti. Sergio lo fece. In quella fila di bambini c’erano le sorelle Bucci. Quello che successe a Sergio preferisco non raccontarlo. C’è una sua bellissima foto, con un volto sorridente e due occhi luccicanti. Chissà che tipo doveva essere”.
“Prima di partire per la Polonia – dice Giulia – ad ogni ragazzo è stata data una scheda con un nome di un bambino italiano deportato ad Auschwitz. Nella scheda c’era scritto tutto: dov’era nato, di chi era figlio, quando era stato catturato e l’anno di morte. Ognuno di noi avrebbe dovuto dire quel nome durante una cerimonia, davanti alle camere a gas. Ma sulla mia scheda non c’era scritta la data di morte – scrive –. Su quel foglio c’era scritto ‘Gino Aboaf, nato a Venezia, deportato ad Auschwitz nel 1944, sopravvissuto alla Shoah’. Appena ho letto che era sopravvissuto mi sono messa immediatamente a cercare la sua famiglia e dopo tanta fatica adesso posso dire con un sorriso immenso che sono riuscita a trovare i suoi figli, le sue nipotine, ho addirittura la foto del suo gatto. Appena finirò gli esami all’università andrò a Venezia a conoscerli. Di solito sono brava a trovare le parole – dice Giulia – ma adesso non so davvero descrivere quanto sia felice”.
Giulia Prete
David Del Prete