Tappeti Volanti al sapore d’autunno

Un viaggio settembrino, tra grappoli d’uva, codici miniati e raggi solari.
Benvenuti alla nuova puntata della rubrica Tappeti Volanti; qui si mescolano in vario modo immagini, parole e idee. Le prime sono mie (di solito), le seconde pure (quasi sempre), le idee invece sono il patrimonio comune più importante che abbiamo; facciamole girare, ne abbiamo bisogno.
Mi chiamo Filippo Brancoli Pantera, sono un fotografo e un giornalista, laureato in Beni Culturali all’Università di Firenze e diplomato in Fotografia Documentaria presso l’International Center of Photography di New York. Ma non occorre andar lontani per trovare qualcosa di bello, basta solo guardarsi attorno e provare a raccontarlo.
La fantasia non è una fuga dalla realtà, ma un modo per conoscerla meglio.

Vite comune(Vitis vinifera)
Oggi rendiamo omaggio al tempo che passa così come a quello che resta, propiziamo le stagioni in arrivo (esagerato, ci proviamo dai) e ringraziamo quelle passate; in fondo funziona così di solito, per assaporare davvero il momento presente dobbiamo staccarci da quello passato senza farci rapire da quello futuro.
Settembre viene da sette, settimo mese dell’anno, quello romano, che iniziava con marzo, in occasione del risveglio della stagione vegetativa, un’idea per niente sbagliata.
Tuttavia l’imperatore Caligola – nel 37 dc – volendo onorare la figura paterna, decise di prenderne il nome e passarlo direttamente al mese; fu così che settembre venne ribattezzato “germanico”. Tale pratica durò solamente quattro anni, dopodiché Caligola fu assassinato. Alla fine del solito secolo un altro imperatore – Domiziano, nell’89 – cambiò nuovamente nome al mese. La scelta cadde ancora su germanico – pensa te – in questo caso un omaggio che l’umile imperatore volle fare a se stesso, avendo fama di essere un grande sterminatore (di germanici). Poco dopo, venne ucciso anche lui, nel mese – ovviamente – di settembre. Da tutto ciò se ne deduce che cambiare nome ai mesi sia una pessima idea.
Meriterebbe invece un discorso a parte il calendario rivoluzionario francese, e allora teniamo in serbo questo argomento per una prossima volta; quel calendario infatti è una della cose più belle che siano mai state pensate.

“Rosada Red Globe” (Vitis vinifera)
Dopo sei mesi passati a rincorrersi, c’è un momento in cui il giorno e la notte hanno ciascuno la solita durata. Per questo si chiama equinozio (dal latino aequinoctium; aequus = uguale, nox = notte); poi riparte l’inseguimento, con l’ombra che qui da noi sarà sempre un po’ più lunga, fino al prossimo passaggio primaverile, quando sarà la luce ad avere un po’ più di tempo a disposizione.
A questo giro, il momento esatto dell’equinozio – ovvero quando i raggi solari sono perfettamente perpendicolari all’asse terrestre – sarà il 22 settembre, alle ore 15:31 per la precisione; io metterò la sveglia qualche minuto prima e uscirò fuori; è vero, senza saperla, questa cosa, non si noterebbe nemmeno, ma tutte le cose, senza saperle, si noterebbero con gran fatica.
Comunque sia, poter dire «io c’ero» quando la luce passa il testimone all’ombra, mi sembra una cosa bellissima, irrinunciabile quasi, e quel raggio che arriva perpendicolare voglio proprio prenderlo. A suo modo, è una forma di rispetto, un saluto a chi con il suo calore ci dona la vita. Ma si può farlo anche in tutti gli altri giorni dell’anno e nelle forme che preferite.
Ogni giorno in effetti, di fronte a noi, si svolge il più grande spettacolo che sia mai stato creato, dovremmo esser pieni di gratitudine solo per questo; non ci sono biglietti da pagare, niente iva, niente siae, è il gioco del mondo e va avanti da sé.

“Nera Palieri” (Vitis vinifera)
Spesso troviamo qualsiasi scusa pur di essere distratti, il nostro ruolo attivo nelle dinamiche celesti ovviamente non è richiesto, ma che spreco incredibile non prestare attenzione a certe cose; sono belle e fanno anche bene.
Le dimensioni note in cui si sviluppa tutta la nostra esistenza sono solo due: quelle del tempo e dello spazio. In questo periodo il celebre fisico Carlo Rovelli sta collaborando assieme alla regista Liliana Cavani alla realizzazione di un film (“The order of time”) che la regista stessa con efficace sintesi ci introduce: «parliamo di un avvenimento che riguarda lo spazio e il tempo, argomenti nei quali la più parte di noi è impreparata eppure sono le dimensioni dentro le quali si sviluppa tutta nostra vita» (Corriere della Sera, 23 agosto 2020).
È bello che si faccia un film – ma ben vengano altre forme espressive – che aiuti a rinforzare il legame con il mondo nel quale viviamo.
Se guardiamo alla produzione tecnologica dalla quale siamo investiti, tutto va nella direzione opposta: distacco dal mondo, e quindi dal tempo e dallo spazio, come fossero cose noiose, certamente non da vivere in prima persona, da delegare.
Steve Jobs (il fu sig. Apple) ci ha tolto già da tempo il piacere di cambiare le lancette all’orologio passando dall’ora legale a quella solare. Sembra una comodità, in realtà è una pessima idea, come tutte quelle che richiedono di non prestare attenzione al mondo che ci circonda. Elon Musk (quello di Tesla) invece vuole mandarci a tutti i costi via da questo pianeta, prima offrendoci qualche giro nello spazio vicino e poi portandoci tutti su Marte. Ma perché non ci va lui?
A me questi personaggi dalle idee simili a quelle di un bambino di tre anni ma con mezzi infiniti per realizzarle, non piacciono molto; crescendo si dovrebbe imparare la differenza tra poter fare e dover fare, ma alcuni non la impareranno mai.
(Io – finché posso – resto su questo pianeta; il posto in fondo non è male e mi piace pure il tempo nel quale ci troviamo)
Nel frattempo, con l’intento di porre un po’ più di attenzione su ciò che ci circonda, mi sono guardato attorno e – come avrete intuito – non è stato difficile capire come l’uva abbia un ruolo da protagonista in questo periodo; e non è nemmeno una cosa recente, tutt’altro.
L’uva ha basato la propria fortuna sulla capacità di trasformarsi per incontrare in molti modi diversi il nostro piacere; sarebbe già buona così, da mangiare a grappoli, ma il meglio – commercialmente – lo dona diventando uva passa, aceto e soprattutto vino. Ho provato anche a trasformarla in succo con un mixer a immersione, non avevo mai bevuto niente di così buono, però prima va filtrato con un colino. «Beh, saprà di uva» direte voi; «eh no, è più buona», provare per credere.
Il rapporto uva – uomini è lunghissimo e presente in quasi qualsiasi cultura. Per gli egizi, il vino erano le lacrime di Horus; se esistesse ancora oggi, questo dio sarebbe proprio insopportabile: piange così tanto da produrre ogni anno trenta miliardi di bottiglie, per un mercato che vale settantasei miliardi di euro; cifre enormi, grazie alle tonnellate – settanta milioni – di uva raccolta ogni anno.
Nel frattempo (dati 2004, adesso la situazione sembra peggiorata) l’OMS ha stimato che l’eccessivo consumo di alcol stia uccidendo oltre il 3% della popolazione mondiale (sì, è tanto, tantissimo) e causando danni seri a un altro 4%. Non c’è sempre l’uva dietro questi dati, ma anche l’orzo (whisky) e il luppolo (birra). Quindi, non sempre è colpa di Horus.

“Uva Italia” (Vitis vinifera)
Pare che il vino venga da Oriente. Pare che tutto venga da Oriente. La saggezza, la conoscenza, la spiritualità, tutto viene da là. Chiamatelo vicino, medio, oppure estremo, ma sempre di lui si parla; un nome mitico che danza leggero sulla linea dell’orizzonte, non sorprende che il verbo orientarsi lo chiami direttamente in causa.
A questo punto mi balena un pensiero matto in testa: e se tutto venisse “da là” perché semplicemente la terra gira a quel modo e il sole sorge prima? A Oriente ci si alza prima, naturale che la cultura ci venga incontro, sono partiti in vantaggio.
Ah che meraviglia se fosse vero, non c’è ovviamente alcun motivo valido per sostenere un’idea del genere – sicuri? – ma come sarebbe bello poterci credere, trovare un parallelismo diretto tra il micro e il macro cosmo, tra l’ordine della vita di tutti i giorni e quello dell’universo. Collegare il particolare con l’universale regala gioie profonde e conforto in mezzo a tante incertezze. E anche le cose che non sono vere un po’ di conforto lo regalano lo stesso (gli esempi, in questo caso, non mancano certo).
Comunque sia, anche il vino viene di là. Ci sono due ipotesi sulla sua origine, abbastanza vicine peraltro: la prima si colloca all’ombra dei monti del Caucaso, tra Turchia e Georgia, la seconda invece in Persia, circa 7000 anni fa, a ridosso dei monti Zagros, un luogo chiave per la nostra storia; da lì era già partito un altro viaggio assai importante per la nostra cultura, quello delle querce (Quercus robur) che si erano poi diffuse in Europa.
A favore dell’ipotesi persiana ci sarebbe un vitigno oggi assai di moda, tanto che in Francia la sua produzione è passata dai 2.700 ettari del 1968 agli oltre 50.000 di fine secolo scorso. Il suo nome prende origine da una città, Shiraz: probabile che nessuno di noi la conosca, però è la quinta città dell’Iran e quando ordinerete un Syrah da ora in avanti saprete perché si chiama così e da dove è iniziato il suo lungo viaggio per arrivare fino a noi.

“Settembre”; miniatura proveniente da “Très riches heures du Duc de Berry”
F.lli Limbourg 1412-1416 (scena completata da Barthélemy d’Eyck e Jean Colombe)
Dedicare attenzione al mondo nel quale viviamo non è una prerogativa dei nostri tempi, tutt’altro; attraverso le opere lasciate dalle epoche precedenti possiamo vedere quanto questo legame fosse una volta anche più stretto.
Quella qui sopra è la pagina di un libro – un codice miniato – e viene spesso considerato come uno dei libri più belli del mondo (si possono fare classifiche del genere? Pare di si). Nonostante si tratti di un libro d’ore (ovvero un testo che raccoglie le preghiere da recitare durante la giornata) dedica ampio spazio anche alle cose materiali. È stato realizzato da tre straordinari artisti, tra loro fratelli: Paul, Jean e Herman Limbourg, agli inizi del ‘400, per il duca di Berry (Francia).
Tra le varie scene rappresentate, ce ne sono alcune tanto celebri quanto belle; è il caso della serie dedicata ai mesi (oggi si chiamerebbe calendario, notare la differenza di stile tra un seppur patinato calendario Pirelli e questo qua). Per ognuno dei dodici mesi sono state dipinte pagine in cui oltre all’impianto delle pittura di paesaggio (punto di vista rialzato, scene ambientate in esterni, campi in primo piano e castelli in lontananza) ci sono fedeli e precisi riferimenti alle attività simbolo di ogni periodo dell’anno. Ovviamente per settembre i fratelli Limbourg hanno scelto la raccolta dell’uva.
In primo piano si trovano le vigne, dove otto persone sono dedite alla raccolta dei frutti; alcuni sono descritti in maniera precisa, una donna incinta, un uomo che mangia dell’uva in un momento di pausa, un altro che piegandosi in avanti mostra le braghe. I frutti vengono caricati su carro trainato da buoi oppure servendosi dell’aiuto di asini muniti di ceste.

“Settembre”, dettaglio; miniatura proveniente da “Très riches heures du Duc de Berry”
In secondo piano, a mo’ di raccordo con lo sfondo, viene illustrata l’area dedicata alle giostre medievali, i famosi tornei in cui i cavalieri si sfidavano tra loro. Infine la strada risale, una donna elegantemente vestita di rosso trasporta con apparente leggerezza delle merci sul capo mentre si avvia verso l’enorme castello.

“Settembre”, dettaglio; miniatura proveniente da “Très riches heures du Duc de Berry”
Sembra la descrizione di un mondo di fantasia, invece è tutto vero: queste scene sono tra le più fedeli rappresentazioni del paesaggio medioevale che siano mai state realizzate. Il grande edificio è il castello di Saumur, e fa parte dei famosissimi castelli della Loira, si può visitarlo ancora oggi. La barriera di legno che è stata inserita longitudinalmente nell’area del torneo forse oggi non ci sarà più, ma aveva una funzione, quella di proteggere i cavalli dall’eventuale – assai probabile – scontro tra loro, e si è iniziata a usare a partire dal 1420.
Ecco che assieme alla descrizione di uno spazio si aggiunge anche quella del tempo, e non solo quello delle stagioni. Ci sono altri elementi utili per datare il dipinto; sempre nell’area del torneo si trova una struttura di marmo decorato con colonne; è il riferimento a una serie di giochi assai famosi organizzati nell’estate del 1446, tanto da passare alla storia come “Pas de Saumur”.
In questo modo chi ha dipinto la scena ha voluto render omaggio (obbligato o sincero non si sa) al suo mecenate – nonché organizzatore dei giochi – che a questo punto siamo sicuri non potesse essere più l’originario duca di Berry che aveva inizialmente commissionato il libro (morì nel 1416, assieme ai tre fratelli Limbourg) bensì René d’Anjou, meglio noto al pubblico italiano come Renato d’Angiò, re di Napoli, duca d’Angiò e conte di Provenza E che, oltre a un’altra manciata di titoli, era anche originario di queste terre e nel castello raffigurato visse negli anni ‘50 del ‘400.
È interessante notare come in un libro dedicato alle preghiere si dedichi altrettanto spazio – e così attentamente realizzato – al mondo fisico; questo ci fa capire quanto spiritualità e materialità fossero all’epoca due facce indistinguibili della solita medaglia.
Oggi questo binomio sicuramente è un po’ allentato, ma forse, anche solo guardandoci attorno con attenzione, possiamo in parte recuperarlo.
Sarò sincero, non lo so se funzioni davvero, ma perché non provare, male che vada potremo scoprire un sacco di cose meravigliose.
Nel frattempo,
è arrivato l’autunno.
A presto,
F.